È in scena al teatro Ghione di Roma sino al 5 novembre lo spettacolo “Recital” di Gianfranco Jannuzzo e Renzino Barbera. L’attore Jannuzzo, in un monologo di due ore, racconta la sua Sicilia come giocosa e considerevole allegoria dell’Italia tutta.
È il principe della risata, l’inobliato Totò a certificare la difficoltà di suscitare il riso, in parallelo al più accessibile pianto. L’impresa si fa più ardua proprio nel teatro, luogo dove tutto è nell’accadere del momento. La scena non può ripetersi sino alla perfezione, congiuntamente deve compiersi in un imminente presente, sotto lo sguardo della sala. Il cammino tortuoso nel verso dell’ilarità viene copiosamente trasceso dentro un monologo di due ore, in scena al teatro Ghione di Roma sino al 5 novembre 2017.
Il recital di Gianfranco Jannuzzo e Renzino Barbera, regala l’occasione di un tempo del pieno diletto, non disgiunto da momenti di riflessione. Lo sberleffo è nullo se non legato a brevi discese in profondità. Jannuzzo, con un tono beffardo e al contempo affettuoso, festeggia l’epifania del dialetto e l’ascesa del luogo comune, non più oggetto di sconvenienza, ma fedele e benevola descrizione dell’essere umano. Da siciliano, l’attore porta in scena la sicilianitudine, o per dirla alla Sciascia, la sicilitudine. Ne fa virtuosa impronta, preparando distinguo all’interno di una stessa regione. Diverso è l’umorismo di un palermitano da quello di un catanese o un messinese. La risata sgorga nel rinvenimento di qualcosa di familiare; è in Sicilia, ma movibile in qualsiasi superficie della penisola. Esiste una liturgia della città che celebra le differenze di impressione, il curioso contrasto tra un funerale del settentrione rispetto a uno del meridione: fazzoletti e andature a onorare chi nelle divergenze si riconosce unico.
Il ritmo serrato, entro un assolo tutto di sorriso, giunge scandito da alcuni momenti riposti; le luci si abbassano, la voce muta tono e il verso è quello interiore. Il tratto regionale non porta esclusivamente al vezzo per la battuta, ma oltremodo al riconoscimento di lesioni difficili da sanare. Pertanto la Sicilia, come la Calabria, così il Piemonte e ogni suolo italiano, divengono fonti ancestrali di gioia e dolore, in un amo et odi, proprio del nativo.
La malinconia, che nel romano è il tenue mammatrone o magone, nel siciliano è l’allammicu, qui in uno stralcio della poesia del padre, Giuseppe Jannuzzo; la proverbiale dolce tristezza che trattiene ogni creatura innamorata del proprio luogo natio.
L’allammicu
Chi è ca è l’allammicu vo’ sapiri?
Aspetta tanticchiedda ca t’u dicu.
Malincunia ti putissi diri:
ma no! ‘stu sintimentu è troppu nicu!Aspetta, ascuta, sì…, fammi pinsari:
è comu quannu, senza cuntintizza
firriamu ‘ntunnu senza nni firmari
ca forsi nni piacissi ‘na carizza
La patria è donna e la donna è dea. Così l’artista in una breve ode alla sovrana del focolare e anzitutto alla regina dell’uomo, lo stesso occultato dietro un fiero mugugno maschile, in silenzio, ne riconosce la grandezza.
Quello di Jannuzzo è un viaggio dal sud verso il nord e dal nord verso il sud, raccolto nella sapiente descrizione di quell’imperfezione che è prima macchietta e poi virtù. Il dialetto, che a un primo ascolto, appare buffo e schernevole, è nelle parole dell’attore, la prima forma di pensiero. Viepiù, l’occasione istintuale nel quale si palesa la lava del sentire: dalla delizia alla collera. E ancora quanto lo stesso dialetto sia finanche capace del mutamento di un percepire; il dolore manifesto nel campano è dissimile, quando non opposto, a quello espresso da un altoatesino. E non c’è da condannare il luogo comune come uno svilimento, al contrario figura l’eccezionalità di un grande romanzo tutto italiano: sospende il biasimo per la propria personalissima particolarità e ne fa finalmente pregio.
La vita, quella dentro il midollo delle cose, è nel dialetto. Il Recital è nell’atto gioioso e nel riconoscersi in un’identità che nella sbavatura crea bellezza.
Gianfranco Jannuzzo, in una completezza attoriale, che va dal fine interprete al cortese pianista, restituisce un grande amore per la sua Sicilia. Tutto avviene nella diversificazione di una voce, che nelle molteplici sfumature, giunge a toccare varie corde: dal ritmo incalzante e ridanciano di un dialetto a l’uomo solo in compagnia di se stesso. L’attore è in una modulazione allegra e commossa, lontana da affettazioni eccessivamente teatrali. Nell’elegia di un’isola resuscita la passione, spesso sopita, per la grande madre italiana. Quella terra annodata al mare, in acque che sono motivo di un breve inabissamento. Il feticcio di uno scoglio, che per l’artista, diviene momento di ricordo: l’uomo e il mare assieme nella vita.
Vivere nei sapori, nei dialetti e nella tipicità, ridere nella consapevolezza di abitare una terra densa di vanti e segreti.
*Gianfranco Jannuzzo – RECITAL, dal 24 ottobre al 5 novemre 2017, Teatro Ghione, Roma.