La vulgata dei salotti e pure delle strade, dei ribelli e dei tutori dello status quo, è che una Serie A così non si vedeva da tempo. E forse è così. Nessuna delle partite di cartello è andata come previsto, è cambiato tutto (e forse per non far cambiare niente). Il Palazzo d’inverno di Ottobre – ma lo è un po’ tutto l’anno – è l’immacolata fortezza dello Stadium, profanata dal manipolo degli hombres di Simone Inzaghi. Il cheto coach, che fa del senso dovere e della coesione le uniche parole d’ordine, arraffa dal taccuino di Sarri dei versi rabberciati di Majakovskij e dà chiavi e geometrie al futurista Luis Alberto e al tetragono Milinkovic. Fin quando, s’intende, non arriva Immobile, che prima risponde al tap-in dell’oggetto misterioso Douglas Costa (segna ma fa ancora meno del solito), poi la sigilla dal dischetto. La Juve, orfanella ma non del situazionismo di Bonucci, annaspa tra le promesse di marinaio del messi(a) Dybala – lanciato nell’ultimo quarto d’ora -, che sbreccia il palo e poi, dopo il verdetto del Var della discordia, si lascia ipnotizzare sul gong da Strakosha. È il secondo rigore sbagliato ed è lo specchio del subbuglio di casa Juve.
Specie perché sarrismo batte di misura Di Francesco e va a più cinque, dimostrando, pur nella sua pertinacia, di sapersi adattare. Sarri lascia la rivoluzione a Inzaghi e detta cautela al granitico 4-3-3 delle grandi occasioni – ma no, è sempre quello, con il solito cambio di Hamsik al 60’ e il solito gol di Insigne -. Dopo l’uno a zero il Napoli non rinuncia alle trame di cui mago Pep, potente e invaghito avversario di Champions che baratta effusioni con l’allenatore partenopeo, tesse le lodi (eccolo, il flirt del palazzo), ma affronta la Roma sul piano fisico: mai visto prima. Fedeltà duttile – e tosta – che sotto sotto e per qualche momento profuma quasi di sano catenaccio: un sacrificio che può rivelarsi utile stasera contro il City. L’arte del disimpegno scopre che c’è più gusto ad arroccarsi un po’, vecchia maniera. La Roma, senz’anima e cincischiante fino agli ultimi dieci minuti, si sveglia troppo tardi, si spegne sui due legni di Dzeko e Fazio e sul vagabondaggio di Florenzi e Nainggolan, trequartista incursore di spallettiana memoria.
E Spalletti se la ride, non per questo, per carità, ma per il tre volte mamba Icardi, nuovo idolo di Balotelli, che castiga il Milan: Montella danza sulla testa di uno spillo. Tre a due e ritmo sfrenato, un traversone riuscito di Candreva, gli sforzi di Borini (sacrificato esterno basso e poi finalmente spostato avanti), il funambolismo di Perisic, le amnesie di Biglia, la parabola di Suso e la freddezza del nove di Rosario che scavalca gli equilibri, già spostati, di Bonucci. Sarà stato il record di spettatori, sarà stato il livello più alto, saranno state la Madonnina e la benedizione di Milito dagli spalti, sarà stata soprattutto l’assenza del Var anche in Roma-Napoli, ma si respira un’altra aria. La ciliegina è di Don Sarri, che in conferenza ieri è stato chiaro: “Mi piacerebbe avere 11 facce di c… che vogliano palleggiare in faccia al Manchester City”. Già, grazie. Perle del genere non si sentivano da troppo tempo.