Carlo Cattaneo scrisse con toni enfatici che esisteva un altro modo di possedere la terra: una collettività la poteva acquisire e gestire autonomamente e liberamente secondo i propri bisogni. In Svizzera, per esempio, esistono gli Allmenden e in Russia i Mir, ovvero consorzi agrari per la gestione delle proprietà collettive. Nel Mezzogiorno e nelle regioni alpine tuttora le terre comunitarie sono tutelate di Associazioni e Università Agrarie, gli ultimi residui moderni di un sistema di sussistenza antico e ancora attuale.
Una storia millenaria
I municipes (i cittadini romani) potevano sfruttare per la semina o per la racconta i communia e gli agri compascui, ovvero terre non private e appartenenti all’intera città. Prima del diritto moderno, quello romano riconosceva la naturalità e la funzionalità delle proprietà collettive, intoccabili e accessibili a tutti, per la sopravvivenza della cittadinanza. Con le invasioni barbariche e la caduta dell’Impero Romano le istituzioni tradizionali decaderro e la popolazione, sguarnita e in miseria, si concentrò in tanti piccoli agglomerati rurali, dediti alla coltivazione di terre collettive per la comune sussistenza.
Un nemico comune
La modernità giuridica e il feudalesimo furono due acerrimi avversari delle proprietà collettive. Dopo la Rivoluzione Francese le associazioni agrarie e tutte le realtà collettive dovettero fare i conti con una forma mentis individualista e sottomessa alla logica del profitto. Mentre il capitalismo negò qualsiasi valore alla collettività, il feudatario con pragmatismo riconosceva ai sudditi una parziale autonomia e libertà nella gestione della terra, secondo un diritto consuetudinario che poi sarà definito Uso Civico. Le tensioni e i conflitti tra la collettività e il signore feudale non furono tuttavia sedati e solo in alcuni casi si giunse a una cogestione del territorio, attraverso un sistema di rappresentanza, che arrivò a limitare il potere assoluto del feudatario.
Tommaso Tittoni e la legge sulle Università Agrarie
Con l’eversione napoleonica della feudalità nel 1806 gli Stati preunitari, prima, e il Regno d’Italia, dopo, dovettero provvedere a sistemare le ex terre feudali e a riconoscere o meno le proprietà collettive e l’uso civico su terre private e pubbliche. Paolo Grossi, presidente della Corte Costituzionale e storico del diritto italiano, ha raccontato il dibattito sulle collettività agrarie in un classico della storia giuridica, Un altro modo di possedere: l’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, pubblicato per la prima volta nel 1977 e riedito dalla Giuffrè nel 2017. Dopo il 1860 il nuovo governo italiano si trovò di fronte alla necessità di normare le associazioni agrarie e i demani comunitari, sparsi all’epoca in tutta Italia e senza un riconoscimento ufficiale. Fu un dibattito decennale sulla definizione di proprietà collettiva e di uso civico, che si concretizzò in una serie di normative che regolamentarono questi antichi istituti giuridici. La legge del 4 agosto del 1894 è probabilmente la più importante: si istituivano ufficialmente le Università Agrarie e si ponevano sotto la loro tutela le proprietà collettive sopravvissute. Solo così si potè salvaguardare un patrimonio terriero che altrimenti sarebbe stato ulteriormente smembrato. Fu il senatore e giurista Tommaso Tittoni, come ci viene illustrato da Grossi nel suo saggio, a promuovere la legge del 1894. Il suo intervento permise la costituzione dell’Università Agraria di Canale Monterano, tuttora esistente, garantendo alla popolazione locale lo sfruttamento libero e equilibrato delle terre collettive, come i loro avi prima di loro.
Le Università Agrarie sono la sopravvivenza di istituzioni oggi poco comprese e inadatte, purtroppo, alle odierne logiche di godimento delle risorse naturali. La collettività non è più un valore, forse spaventati dalla versione assolutizzata dei regimi del Novecento.