Con lo sguardo incollato davanti all’ennesimo straziante caso di cronaca, quello dell’adolescente di Specchia, Noemi Durini, la riflessione si posa sul dolore. Sul disgraziato momento in cui da dolore è divenuto fenomenologia dello stesso.
In quale momento il dolore è divenuto res televisiva? Non siamo sull’elettrizzante set di un ottimo serial americano. Non è Criminal Minds. Non è neppure un nostrano Giorno in pretura, programma televisivo, certamente legato a fatti di cronaca, ma privo del carattere peculiare dell’intervista a caldo. Ancora, non si è al cospetto della perfetta suspence di un maestro del genere, quale Hitchcock. È l’accadere del dolore, che nella sua dilatazione, irrompe nelle nostre case. Dalla dimora della vittima a quella del carnefice, sino alla nostra. Il percorso va dalla morbosità della domanda all’indignazione di un’ovvia risposta. I media altro non offrono che un pasto richiesto. Forse un cibo grasso, poco salutare, difficilmente digeribile, tuttavia scritto nella comanda degli astanti.
Segue un’indigestione che grida nel verso del cuciniere. È l’ennesimo scioccante caso di cronaca nera: l’oscurità che alimenta l’oscurità nelle modalità di trattazione. L’indignazione è un boato assordante e si riserva a coloro che portano la notizia senza filtro. La lucina rossa che si accorda al primo istante della nuova, finanche al concepimento. La camera è la vita che riprende la vita. Si fa nel farsi. La prima reazione dei presenti davanti allo schermo è lo sdegno. A chi si permette di entrare nelle vite degli altri, esistenze da tutti indagate, va la peggiore delle considerazioni. Nondimeno non risultano domicili forzati da improvvisati leverini o portoni buttati giù a forza.
Il caso è quello di Noemi Durini, una giovane adolescente, vittima del fidanzato. Senza volere entrare nel merito delicato della vicenda, si tratta di una storia drammatica, che in altre località e in volti diversi, lo spettatore ha visto, condannato e memorizzato. La cornice funerea è nelle famiglie, tese a rendere televisiva, sino all’inverosimile, la sfera della disperazione. Poiché se le telecamere entrano in una dimora privata è perché qualcuno ha aperto la porta e si è messo in favore di ripresa. La vita nella cronaca nera muta nel film, le vittime insieme ai carnefici disegnano i fotogrammi infausti che alcuno vorrebbe vedere. Ma al cinema si va, vieppiù a vedere ciò che spaventa. Un circolo difettoso dove la ripresa alimenta il ripreso, entrambi linfa dello spettacolo. Il dolore figura la res televisiva. La tivù evolve o involve nel tramite più intimo con il mondo, il trait-d’union tra l’assenza di pudore e la messa in scena dell’evento più tragico: la morte. I colpevoli si impastano agli innocenti, superano lo strazio nel darsi in pasto e farsi pasto. È la volontà di divenire film, fosse anche il più osceno. Esiste una regia, certamente. Ma al contempo esiste la volontà di farsi dirigere. Si decide di essere attori. E su questo moto sgangherato, la cinematografia affoga nei volti dei protagonisti.
La svolta del voyeurismo è dentro la realtà: l’osceno non è mai stato così osceno.
@isabellacesarin