Pubblichiamo un estratto su Lucio Battisti dal saggio di Miro Renzaglia “La Parola a Ezra Pound – E altre maschere d’autore” edito dal Circolo Proudhon
Che fosse fascista o, almeno di destra a me, personalmente, nun me ne è mai calato neanche un po’. Io mi sono innamorato della di lui (della di loro) musica-e-parole prima ancora di capire che c’erano una destra e una sinistra; se c’era e qual era lo sfondo culturale di riferimento alla sue note e ai versi del più noto dei suoi (tre successivi) parolieri: Mogol. Ma non è di lui che vi voglio parlare. O meglio: non voglio parlare del cosiddetto “primo Battisti”, quello che, all’epoca, ci ha invaghiti tutti: dichiarati e non dichiarati. Troppo facile, troppo comodo far leva su “Emozioni” (1970) dei nostri begli anni andati. Parliamo invece del “secondo Battisti” (che poi è il terzo). Quello che (ri)parte dall’interruzione del sodalizio con il grande Mogol. Quello, soprattutto, che spinge alle estreme conseguenze la sua linea di ricerca musicale, (pur tenendo conto che “Anima Latina” del 1974, anticipava già altre d-istanze). Quello che spudoratamente dichiara di “non voler più emozionare”. Ahi, ahi, ahi… quante defezioni si possono contare allora nei ranghi dei suoi aficionados. E quante incomprensioni.
Incomprensioni? Oh, sì! Proprio dalla dismessa ditta Battisti&Mogol, la cifra della produzione del reatino diventa epifenomeno della rottura del canale di comprensione con il pubblico. Perché, una cosa è portare avanti la ricerca nel solco della tradizione melodica, tutt’altra cosa è cercare un nuovo punto di origine. Oh! allora, l’incomprensione non è solo giusto metterla nel conto, è giusto, invece, praticarla con tutti i rischi d’incomunicabilità debitamente annessi. Chi è che diceva (cito a memoria): «Ci si trova più spesso d’accordo con chi si capisce quando, invece, bisognerebbe fare l’esatto contrario»? Nietzsche, forse? Mi sembra di sì… Perché è lì, nel punto di non-comprensione, che cominciano a muoversi le rotelle dell’intelligenza spinta in avanti. Se poi uno preferisce lasciarsi cullare dal buon senso antico che si rinnova sui suoi soliti fasti, beh! legittimo farlo, perché no? Il non lecito è bollare a priori di fallimento le altrettanto giuste pretese dell’artista a non restarne schiavo. O pensate che per non disturbare il vostro buon gusto, e non tradire le attese, si debba adattare all’infinito alla ripetizione della stessa identica formula? D’altronde, “Una giornata uggiosa” (1980), l’album che conclude la collaborazione storica con Mogol, non è forse il meno memorabile della loro produzione? La parabola volgeva a termine comunque. Il primo a capirlo fu, forse, proprio Battisti. Che andò oltre…
Tradizione, tradire – si diceva sopra – non hanno forse una stessa identica radice etimologica? Claro que sì… Ma, allora, tradirsi non è una particella logico elementare del nostro stare al mondo, senza la paura di verificarsi fuori dai limiti di una tradizione che viene spesso confusa con l’abitudine e il convenzionale? Essere fedeli a se stessi pretende la verifica del confermarsi essere esattamente quelli che siamo: altrimenti, a quale me stesso dovrei essere fedele? Allo specchio che mi rimanda l’immagine mattutina del mio me indiscusso e indiscutibile? E che altro si può fare, a tal fine, se non tradirsi? Solo nel punto in cui sperimento nella mia anima l’altro da me, posso confermarmi d’essere esattamente quello che sono. O scoprirmi un altro che non conoscevo. Restandogli, poi, eventualmente, fedele. Bene, allora: se Battisti trasumanando dal suo primo manifestarsi, transitando nell’interregno della mediocrità di “E già” (1982, con i testi improponibili della moglie), s’andò poi a ricostituire nel lessico del poeta romano Pasquale Panella; se trasumanando – dicevo – s’è tradito, il proposito, conscio o inconscio, era quello di andare a ritrovarsi al di là del se stesso dato. Forse, finanche, al di là di avanguardia e tradizione. O, meglio: dove avanguardia e tradizione si coniugano all’infinito del verbo essere. E fu ancora poesia…
Mettetela un po’ come vi pare, ma: “Don Giovanni” (1986), l’album che inaugura il terzo, ultimo sodalizio di Battisti, con il beneficio del Panella di cui si fa parola, è un superlativo di ciò che la cosiddetta musica leggera può esprimere. Agli estremi frutti, «ma più dolci e più rossi», del Battisti finale fa, ora, il controcanto la vivacità di chi non si accontenta di far marciare le parole su contenuti acquisiti e pretende, piuttosto, di celebrare innanzi tutto la forma e il suo enigma. Il risultato? Ascoltate bene il testo più sperimentale di quel lavoro: “Equivoci amici”: roba da non sfigurare a fianco di un Bartezzaghi, di un Bergonzoni e di tutti i fini dicitori della parolibera, del non-sense, del calembour, della paratassi spinta a concetto, tra segrete strategie grammaticali e sfrontate sin-tattiche d’assalto: da Marinetti a Petrolini; da Totò a Carmelo Bene; da Joyce, a Lewis Carroll.
Ma l’ancora più bello accade dopo. Perché, sapete? L’appetito viene spesso mangiando. E se fino a “Don Giovanni” il musicista si era conferito il ruolo d’ispiratore dei suoi parolieri, con atto d’umiltà e di sfida (a se stesso – penso – più che agli altri), concepì l’inversione del metodo: dammi i tuoi testi e io li metto in musica. Oddio! Anche qui, niente di nuovo. Ma il nuovo non è, forse, un’invenzione antica? E vi risulta che Verdi componesse prima di aver scelto il libretto dell’opera? Così nascono e sono realizzati gli album autunnali e invernali del sempreverde: “L’apparenza” (1988), “La sposa occidentale” (1990), “Csar” (1992), “Hegel” (1994). Un florilegio che distrugge la forma-canzone tradizionale. E restituisce alla musica il suo parterre di poesia. Andatevi a sentire quella che, a sorpresa, gl’irriducibili fan’s web-club considerano la sua migliore canzone di sempre: “I ritorni” (ne “La sposa occidentale”). Non ne avete voglia? Va beh! nessun problema: c’è sempre un Jovanotti che vi sollazzerà “Tanto, tanto, tanto, tanto, tanto…”.