Sul banco degli imputati, dopo la rovina del quattro-due-quattro venturiano di dolore ostello (libidine, nostalgia canaglia), c’è finito, trascinato senza distinzioni di sorta, pure Marco Verratti. I bombardieri di tutto il paese (unitevi!) ci hanno dato dentro: “incompleto, inadatto, incompiuto” è la vulgata da tiritera. Dai salotti bene fino ai vicoli stretti dove il futbol salva i dannati, il rimprovero si alza, indignato e intrattabile, come una voce sola contro il gioiello di Pescara.
Storia di un predestinato
Proprio lui che è uomo di popolo e predestinato, da sempre. Da quel debutto di ormai dieci anni fa, all’eureka di Zdenek, che lo abbassa e lo inventa regista basso – e nocchiere – davanti alla difesa in un modulo all’arrembaggio incessante; all’approdo milionario al Psg nel 2011 (a diciannove anni compiuti), dove fa breccia nel cuore di Sir Carlo e fa legna accanto al mastino Matuidi – ne fa pure troppa: qualche cartellino di troppo però non macchia la sua stagione da urlo, che in percentuale di passaggi riusciti lo vede secondo, nel mondo, solo a Xavi. Che lo elegge suo erede e gli apre le porte del Pantheon dei metodisti. Laurent Blanc poi se lo tiene stretto, lo accudisce e vede la sua crescita come tuttocampista, votato miglior giocatore della Ligue 1. Una pubalgia lo tiene ai boxe – anche della Nazionale, dopo essere stato l’unico azzurro degno nel Mondiale 2014 -, ma nel 2016 torna a pieno regime alla corte di Emery (che lo incatena di fronte a ogni sirena del mercato, dandogli le chiavi del centrocampo) e di Ventura.
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Verratti, geniale vox populi che parla ancora pescarese
Non si può mettere in discussione Verratti e il suo genio, già consacrato a ventiquattro anni, per un disastro collettivo in cui il centrocampo è stato consegnato alle fauci iberiche. Verratti è soprattutto segnacolo nazionalpopolare, curt’ e nir’ (“Non saccij l’italian, pozz sapé lu frances?”), un po’ pupo siciliano e un po’ Frodo dell’Adriatico, mediano d’interdizione, scaltro, play puro eppure mezz’ala a tutto campo, uomo dell’ultimo passaggio. L’unico figlio di Zeman che la Juve (e il Barça fra tutte, che ancora pensa alla sua prestazione in Champions) ama alla follia e rincorre a perdifiato. Icona della versatilità ordinata, sodalizio di frenesia metropolitana e meccaniche d’altri tempi, vernacolari e crepuscolari, che ha riportato in voga a liturgia di pennellate con scarpette nere. Compassato nel fraseggio e fulmineo nella verticalizzazione. Irriverente, Savonarola dispettoso e campione d’umiltà: “Il tunnel che mi ha fatto Isco? Avrei voluto alzarmi e applaudire”. Non è bastato cedere il suo 10 azzurro a Insigne.