L’indagine critica su Evola pittore avanguardista, vieppiù se rapportata a quella preponderante riguardante il pensiero tradizionalista, risulta tutt’oggi alquanto lacunosa e frammentaria. Al cospetto di una mole imponente di saggi e approfondimenti inerenti l’anti-modernità teoretica del Barone (con panegirici esoterici, non sempre centrati), restano a controbilanciare pochi testi sull’esperienza artistica primonovecentesca. Questo a voler artatamente separare – talvolta addirittura contrapponendo – un Evola all’altro, conclusione forse superficiale ma non priva di fondamento. Quale punto di contatto, infatti, tra le eleganti provocazioni Dada e i (talvolta) rigidi schematismi dottrinali? Tra l’irrazionalismo guastatore della congrega zurighese del Cabaret Voltaire e la solarità imperiale romana? Tra il dandismo anticonformista giovanile e il rimpianto per le caste della maturità? Forse il piglio antiborghese, più probabilmente – si pensi ai dioscuri Savinio/de Chirico, al ripiegamento tradizionalista bizantino del dadaista Hugo Ball, oppure al ritorno all’ordine del sarfattiano 900 – una sorta di ricerca di valori atemporali, dopo tutto il modernismo iconoclasta e a quella che Ortega Y Gasset definì la disumanizzazione dell’arte. Le risposte difficilmente si troveranno in libreria, propria a causa di quella linea di demarcazione che ha finito per relegare gli approfondimenti evoliani sugli scaffali della dozzinale new age.
Una guida bibliografica
Tra i documenti utili reperiti e consultati, segnaliamo la ristampa anastatica dell’imprescindibile Arte astratta posizione teorica, 10 poemi, 4 composizioni, di Julius Evola (Quaderni di testi evoliani – n3), l’esaustivo Julius Evola e l’arte delle avanguardie (Fondazione Julius Evola, 1998), il dvd Dalla trincea a dada, poi Le forme del disordine – Saggi su Campana, Evola, Fillia, Penna, di Barbara Zandrino (SugarCo 1982) e infine il relativamente recente Evola dadaista – “Dada non significa nulla” di Andrea A. Ianniello e Federica Franci (Giuseppe Vozza Editore, 2011).
Proprio quest’ultimo può aiutare a far opera di sintesi, già a partire dalla citazione di Tristan Tzara del sottotitolo, sulla quale non sarà ozioso spendere qualche parola. La doppia negazione si trastulla intellettualmente nell’ambiguità sintattica: Dada significa nulla o piuttosto, come scritto, non significa il nulla? Ovvero qualcosa di non specificato? Ancora: la negazione nega un significante o lo tiene al riparo da tale annullamento? Ciò che sappiamo è che il dadaismo fu, nella sostanza, un movimento radicalmente nichilista, teso a sabotare non solo i vecchi codici della tradizione, ma pure le nuove mitologie progressiste (futurismo compreso), che proprio ai quei tempi s’andavano diffondendo, soprattutto nelle file di intellettuali e artisti. Dada non significa nulla, dunque anzi di più; di certo non la costruzione di un giocattolo funzionale per restare sospeso a dondolo nei musei (come poi avvenne), bensì la rottura del medesimo, per il gusto fanciullesco di decomporre, osservando così com’è fatto dentro. O forse solo per capriccio, per sostituire feticci iconici con altri feticci, balocchi da fine del mondo.
Evola dadaista di Ianniello e Franci, a discapito della cinquantina di pagine, è un doppio saggio densissimo, graficamente ben curato, arricchito da disegni originali di Gerardo del Prete. La lettura, purtroppo appesantita da un eccessivo zelo di note a piè pagina nella prima parte, conferma tutte le difficoltà nell’impresa di armonizzare Ars regia con Ars nova. L’intervento iniziale di Ianniello, invero piuttosto polemico ed appassionato – ma condivisibile nelle critiche a certo settarismo e alle proverbiali “ottusità” del Maestro – lambisce solo sommariamente la tematica enunciata dal titolo, preferendo collegare specularmente molteplici riferimenti, dottissimi ne diamo atto, al fine di agevolare una linea di logica disintegrazione del mondo moderno (con un’urgenza forse eccessiva, giacché siamo ancora tutti in vita), o di trapasso “aionico” se si preferisce, ben nota a chi del tempo “storico” non sa che farsene.
Nella seconda parte, a cura di Federica Franci, emerge con maggiore chiarezza l’attenzione nei confronti del fermento artistico avanguardista, seppure mai banalizzato in risaputa nozionistica. L’autrice giustamente collega l’ispirazione pittorica evoliana alle evocative pratiche alchemiche, ma lo fa ribaltando il punto di vista rispetto al coautore, privilegiando quindi il contesto pionieristico, rivoltoso, inedito. Già dal titolo – Utopia, amoralità e occulto nella pittura di un visionario – il secondo capitolo del libro conferma la sensatezza di proseguire su questa strada con ordine filologico. Anche a costo di separare un Evola dall’altro. Cominciamo intanto da quello “buono”, riconosciuto internazionalmente come primo dadaista italiano. Per il mito del cattivo maestro e per le elucubrazioni degli ortodossi, c’è sempre tempo.
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