Non c’è un atto di nascita. Le ricostruzioni sono le più disparate. Ma la più accreditata trascina Pulcinella all’alba dei tempi. Quando la maschera è attestata per la prima volta, nelle Atellane, pare già essere un fossile culturale. Le Atellane rappresentano la più antica rappresentazione teatrale dell’Italia antica. Visse nell’area occupata da genti di lingua osca, quindi nei territori della Campania e del Sannio (molto) prima che sorgesse l’alba di Roma.
L’antenato di Pulcinella si chiama Kikirrus. I nomi, specialmente in questo caso, non sono mai innocenti. Hanno sempre tanto da raccontare. Kikirrus è onomatopea che riconduce immediatamente al gallo, la maschera è quella teriomorfica che richiama appunto a questo animale. Il gallo non è privo di significato, né può esserlo in una cultura rurale e legata al culto della Grande Madre quale fu (e quale è ancora oggi, nonostante tutto) l’Italia meridionale. Egli annuncia l’aurora dalle dita rosa, che nascose agli occhi olimpici degli indoeuropei il culto delle Matres Matutae. È animale psicopompo e prediletto della Kore poi divenuta Persefone, che ne annuncia il puntuale ritorno sulla terra dall’esilio semestrale nell’Ade. Annuncia e ammonisce, testimonia l’immortalità della Terra.
Qui c’è l’originalità dello sviluppo millenario di Kikirrus-Pulcinella: è un nascondimento che mai passa per una demonizzazione, attraversa semmai il comico, lo supera e mai si fa sfiorare dal grottesco.
Pur mantenendo le comuni origini ctonie, non condivide lo stesso destino toccato a un’altra grande maschera della commedia all’italiana: Arlecchino. Il culto visse nell’area che sarà quella della Mitteleuropa come quello d’un nume rurale, poi fu demonizzato dal cristianesimo imperante e diventò “Holle Konig”, il re dell’Inferno. Ma questo capo di tutti i diavoli, presto, subì un’ulteriore mutamento, scindendosi a un bivio geografico e culturale. Nelle campagne dell’Italia del Nord, fortemente contaminate di elementi mediterranei e latini, “Holle Konig” si getta nel grottesco e arriva così al suo sostanziale disarmo esorcistico, Arlecchino.
Nell’area gotica e tedesca, invece, si fa personaggio inquietante e misterioso, come il Pifferaio Magico o il Kindlifresser di Berna, la cui statua divora bimbi in Svizzera da cinquecento anni e oggi nessuno ne sa più il perché.
Un genio tutelare.
Pulcinella non subisce alcuna demonizzazione perché si rifugia da subito nella meza sola, la maschera indossata dai tanti che nel corso dei secoli ne hanno inteso incarnare lo spirito. È personaggio popolare, che del demos ha tutto, pregi e difetti. Nelle centinaia di storie e commedie che lo vedono protagonista è protagonista di mille lazzi, prende (e restituisce) solenni bastonate, corteggia (a volte con successo, altre con sommo scorno), affronta e si confronta con la boria dei potenti. La sua è figura carnascialesca in senso pieno: rovescia le gerarchie, capovolge i rapporti di forza, è l’anima della festa (intesa in senso tradizionale, cioé del giorno in cui la realtà cessa momentaneamente di esistere per lasciar spazio al divino e al suo volere). La maschera amplifica, accoglie e restituisce il sentimento autentico delle comunità davanti a cui si esibisce. L’arma del ridicolo è la più potente di tutte, e Kikirrus aveva l’immenso potere di usarla (a suo arbitrio e piacimento) contro i grandi, i piccoli, gli scemi, gli intelligenti, contro ogni ubris, contro chiunque egli volesse.
Ma da qualche decade, Pulcinella non scherza più, ha copiato il Pierrot triste ed emaciato di Francia, ne è diventata sbiadita copia in senso vagamente meridionalista e ha perduto tutto il suo immenso potere. Tutto è cominciato quando gli hanno voluto togliere la maschera.
La rivoluzione eduardiana.
La “rivoluzione” comincia quando, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Eduardo De Filippo porta in scena la commedia amara “Il Figlio di Pulcinella”, in cui bastona l’ingenuità del popolo auspicando che dall’America (e cioé dall’incontro con la modernità) arrivi una nuova generazione (il figlio appunto di un vecchio, impotente e deluso Pulcinella) in grado di riscattare i torti subiti da tutti i baroni Vofà Vofà che da tempo immemore campano opprimendo gli humiliores.
Il successo pop di questa lettura non si deve tanto alla commedia quanto al film “Ferdinando Re di Napoli”, in cui Eduardo interpreta un attore di teatro che, vestito di maschera e pan di zucchero, arringa il popolo contro la corruzione e l’insipienza dei Borboni.
Si tratta di una pellicola eccezionale, pubblicata nel 1959. Ci sono tutti, qui. C’è Nino Taranto, eccezionale nei panni del primo ministro vanaglorioso e iettatore, c’è Renato Rascel che interpreta uno scafatissimo Mimì, parente strettissimo di Scapino. C’è il povero Aldo Fabrizi, contadino alle prese con le furfanterie dell’illogica burocrazia borbonica, c’è Vittorio De Sica, perfetto nei panni del rampante uomo di Chiesa che fa carriera perorando la sgangherata e fasulla causa di santità per il re Ferdinando, interpretato (da autentico gigante) da Peppino De Filippo.
Giusto per inciso: nonostante la presenza e il ruolo di Eduardo siano efficacissimi al ruolo, le vette di satira quel film le raggiunge proprio con Peppino che presenta al figlioletto miserie e ignobiltà degli uomini del suo stesso governo.
In “Ferdinando re di Napoli”, Pulcinella (scopertosi bonapartista) si toglie la maschera. Come aveva già fatto a teatro il di lui figlio eduardiano. “Pullecenella nun more mai”, sibila Eduardo al re che vuol farlo impiccare “comme a nu casecavallo”. Togliendosi la maschera, Pulcinella decide di incarnarsi e di scendere a patti con l’umanità. Lo fa per lottare contro le ingiustizie e le carognate del potere ma s’intristisce. Perde la beata santità del folle invasato dal dio per diventare un comiziante, interessante quanto si vuole, ma pur sempre tale.
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=y2WWEdmealY[/youtube]
In termini tradizionali e culturali è un passaggio clamoroso che ha delle conseguenze impressionanti. Pulcinella è costretto ad agire nel campo arciborghese dell’engagement, dell’impegno. Deve muoversi su un terreno che non è più suo dove la sua stessa radice soprannaturale viene esorcizzata in nome del sozial, ossessione della civiltà piccolo borghese che Eduardo inocula nella tradizione teatrale partenopea.
L’eco nel Napoli Power.
Lo stesso tema viene ripreso anche da Pino Daniele, nel suo album di esordio “Terra mia” (1977). Nel brano “Suonno d’ajere”, Pulcinella non ride più e la voce femminile che dialoga con lui gli sussurra che dopo essersi tolto la “maschera nera”, secondo la sua gente lui “non verrà più” e il coro gli imputa che “Tu nun si’ cchiù Pulecenella/ Facive ridere e pazzià/ Mo t’arragge e pienze a’ guerra / E nce parle ‘e libertà”
Al che il Pulcinella di Daniele replica: “Ma nun è overo/ ca ie so’ fernuto/ E allucco pe’ tanto dulore”. E poi aggiunge: “I’ allucco ogne minuto/ Ncoppa ‘e vocche d’e criature / Ncoppa ‘e mane d’e signure ‘e ‘sta città/ Pe che sta miseria ca nce sta’ ‘nzino a dinto ‘e recchie”.
Il linguaggio di Pulcinella è quello di un éngagè, come tanti altri. Togliendosi la maschera, tramite divino, è diventato troppo umano, sfonda il demagogico e diventa un (altro) dei tanti. È diventato invisibile.
[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=Yqx9v7CDCdc[/youtube]
Trasformazione annunciata.
Eduardo, però, non s’è inventato nulla. Il filone del popolo che lotta contro l’oppressione dei nobili baroni latifondisti è ampiamente attestato nella letteratura postunitaria del Mezzogiorno. E ha un precedente eloquentissimo nell’opera massima del romanziere Francesco Mastrani, “I Misteri di Napoli”. Tutto ruota, in un calembour d’appendice efficacissimo che contemporaneamente risente tantissimo dell’incipiente moda verista, intorno alla storia d’amore tra il contadino Onesimo e la “santarella” Marta. Finirà malissimo perché ai poveri non può arridere il lieto fine. Ma il giusto Onesimo, ultimo epigono di una genìa di santi coltivatori della terra, vessati e sfruttati in ogni modo dai padroni che si vendicano perdonando loro ogni ribalderia, finirà per gettar via i crocefissi aviti e per andarsene a Londra. Lì studierà le formazioni operaie e socialiste, coltivando il sogno di tornare e rendere, finalmente, giusta e moderna Napoli.
Nell’Ottocento è una mano tesa, quella sognata, tra borghesia e popolo minuto per abbattere quei parassiti aristocratici che campano su diritti inveterati e mai toccati da secoli e secoli di obbedienza. Un’intesa nel nome del progresso su cui, poi, si sarebbe dovuto costruire un sentimento d’unità nazionale della giovane Italia. Servirà la prima guerra mondiale, oggi colpevolmente e vergognosamente negletta, a fondarla davvero. Anche perché i borghesi frequentavano (e nemmeno troppo segretamente) i nobili, li riverivano e sognavano di diventare uguali e precisi a loro (magari dopo averli spogliati delle loro proprietà).
L’equivoco e il conformismo.
Più tardi, tra le macerie del secondo conflitto mondiale è ancora il mito del Progresso a fissare le priorità culturali. Con l’America, con il benessere, nessuno sarà più proletario. Anche nel più infimo dei bassi napoletani tutti possono sognare il gran salto, quello di diventar borghesi anche loro. Il “domani” è roseo per tutti e se l’oggi è ancora una chiavica, non è colpa del sottofondo ma del fatto che ci siano troppi cattivi e corrotti. Quindi, lungi dal mettere in discussione il modello culturale ed economico impostosi dalla seconda metà del Novecento, la bagarre si fa fumosa e si nutre di capri espiatori che da qualche secolo fanno sempre le stesse identiche cose. È la retorica dei cattivi che piegano un sistema neutro e potenzialmente buono, ed è contro di loro che bisogna insorgere. Insomma, di rivoluzionario non c’è molto.
È stato così che, per accusare gli uomini, per addolorarsi dei loro misfatti, per seguire il sogno di un salto sociale fasullo e infondato, Pulcinella s’è scordato d’essere il genio tutelare dello spirito d’un popolo e s’è confinato a comparsa delle canzonette da musical che (in mancanza d’altro) diventano intoccabili e insopportabili inni politicamente corretti e irreprensibili.