
Ci ha lasciato qualche strascico la querelle sui ‘quaderni neri’ di Martin Heidegger. I filosofi si sono più meno schierati tra il 2015 e il 2016. Emanuele Severino, Donatella Di Cesare, Emanuel Faye e altri sono intervenuti nel dibattito sull’antisemitismo del filosofo. È intervenuto anche Friedrich-Wilhelm von Herrmann, assistente di Heidegger, per chiudere una polemica che non ha fatto bene alla comprensione di un pensiero fondamentale dell’ Esistenzialismo. Proprio la controversia sui ‘quaderni neri’, terminata nei primi mesi del 2016, sta causando un certa distrazione nei confronti dell’anniversario per i novanta anni dell’opera di Heidegger, ‘Essere e tempo’ (1927).
Adesso l’occasione è data dal ripensare un capolavoro filosofico come un’opera mai finita. I novanta anni da ‘Essere e tempo’ rappresentano uno spazio temporale minimo e raffigurano – per metafora – un robusto albero con tante radici: una di queste è cresciuta in Italia con l’interpretazione di Emanuele Severino.
Di certo, Heidegger è connesso con i nostri giorni nella misura in cui la temporalità siamo noi, “L’esserci” avviene “solo in quanto determinato dalla temporalità.” Quindi non vi è stabilità nelle forme delle coscienze: si trasforma la soggettività, muta la società e l’unico “orizzonte dell’essere si rileva il tempo.” Con una temporalità globalizzata, quindi, la dipendenza dell’essere dalle situazioni temporali – “rischio, bisogno, incertezza” – è fortissima e tale dipendenza si concentra ora in un termine di densità heideggeriana, ossia precarietà. In ‘Essere e tempo’ non vi è la possibilità di stabilizzare teorie e questo risulta come una conferma della coscienza della crisi occidentale. Dopo la grande elaborazione del 1927, Heidegger allora comprende che proprio la tecnica ha cominciato a riempire il vuoto causato dalla crisi dell’essere.
Prima di morire – al settimanale ‘Der Spiegel’ – egli ribadisce che “la filosofia è alla fine”, di conseguenza avanza la tecnica che “sempre più strappa e sradica l’uomo dalla terra.” Ciò ieri e oggi, perché la tecnica non ha terre o confini a cui appartenere e ha paesaggi da trasformare, troppe volte; il che è un approdo per una riflessione enorme avviata novanta anni fa.
Dopo tanto tempo di freddezza intellettuale, per di più, dovrebbero essere riletti gli appunti sulla conferenza di Heidegger – ‘Perché i poeti?’ – pubblicata nel 1950. “Ciò che minaccia l’uomo è la convinzione che la realizzazione della produzione tecnica metterà in ordine il mondo.” La frase è collegabile al concetto per cui “l’ordine della tecnica” minaccia l’ambiente e alimenta la robotizzazione/disoccupazione, pur facendo funzionare le società. In questo senso, la filosofia heideggeriana promuove confronti critici con una contemporaneità in cui la computerizzazione ci assorbe, ci trasforma..
Sia consentito… Ma se tornasse sulla terra il filosofo nato a Messkirch, forse direbbe: Non vi rendete conto che avete inserito la vostra carica emozionale in uno smartphone di pochi centimetri? Non vi accorgete che il mondo sta dentro una mano in un ordine semplificato ed eccentrico? In breve, torniamo a discutere di Heidegger in un contesto post-ideologico. Giacché i superati biasimi ideologici non sono utili alla comprensione di una storia filosofica che riflette sulla rovina occidentale e sulla dittatura tecnologica.