Scuola di Fanteria di Cesano di Roma, estate di 41 anni fa. Il tenente colonnello che tiene le lezioni di Lcb (Lavori sul campo di battaglia) agli allievi ufficiali di complemento, dopo avere dettagliatamente elencato le procedure da seguire nel caso di campi minati, rivela fuori programma qual è la dottrina militare sovietica in materia: fare finta che non ci siano. Le perdite comunque prevedibili per i lavori di sminamento e quelle derivanti dal ritardo nell’avanzata superano quelle dei malcapitati cui toccherà saltare per aria aprendo la strada agli altri.
Non so se quel tenente colonnello raccontasse la verità o si divertisse a rivendere una fake new, come si direbbe oggi, della guerra fredda. Però col passare degli anni mi sono accorto che pur nel suo cinismo quella procedura conteneva un fondo di verità riscontrabile anche nella vita civile. Per evitare un male presunto, si corre a volte il rischio di incappare in un male reale. Ignorare un pericolo può essere il modo migliore per prevenire guai più seri.
Quello che sta capitando a Donald Trump con il cosiddetto Russiagate sembra confermarlo. Il presidente degli Stati Uniti, com’è noto, è stato accusato di avere tratto vantaggio dalle intrusioni nella campagna elettorale di elementi dello spionaggio sovietico. Che questa accusa susciti reazioni emotive nell’opinione pubblica statunitense, non solo negli ambienti liberal, è comprensibile: la Russia è considerata dagli americani a partire dall’inizio della guerra fredda il nemico principale. Che lo stesso scandalo sia condiviso da molti ex comunisti di casa nostra, cresciuti in un partito che fino agli anni Ottanta beneficiava dei finanziamenti nemmeno tanto occulti dell’Urss, può suscitare qualche perplessità. La questione però è un’altra: nel tentativo di arrestare un’indagine che con ogni probabilità non ne avrebbe invalidato l’elezione e, nel peggiore dei casi, avrebbe potuto coinvolgere alcuni suoi collaboratori, Trump ha compiuto interventi ed esercitato pressioni che potrebbero avviare un processo di empeachment. A testimonianza del fatto che la storia non insegna nulla ai popoli – meno che meno agli statunitensi, che notoriamente la studiano poco o nulla, al di fuori di ristretti ambiti accademici, – il presidente americano sta comportandosi come Nixon in occasione dello scandalo Watergate. Il suo predecessore, che pure poteva vantare un’elezione a larga maggioranza e alcuni indubbi successi diplomatici, come il disgelo con Pechino, fu costretto a dimettersi non per i pasticci commessi da alcuni troppo zelanti collaboratori, che avevano spiato la convention democratica, ma per le bugie dette per scagionarsi e scagionarli, per il suo anfanare incalzato dai segugi del Washington Post.
Oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, la storia rischia di ripetersi. Nel tentativo di bonificare il campo minato delle accuse rivolte al suo staff, Trump rischia di saltare proprio lui, come accadde al suo predecessore. La tecnica del giornalismo liberal è la stessa, anche se al posto delle cabine telefoniche da cui si poteva anche ricevere chiamate i cronisti d’assalto del Washington Post possono contare su smartphone e palmari, oltre che sull’appoggio dei servizi segreti, ambiziosi di affermarsi come quinto potere. Ma, paradossalmente, anche le conseguenze di un eventuale empeachment potrebbero presentare molte analogie.
Le dimissioni di Nixon coincisero con un lungo periodo di crisi della politica estera e dello spirito pubblico statunitense, che consentì nel 1979 all’Unione Sovietica di allargare la sua sfera d’influenza dall’Afganistan al Corno d’Africa. Solo l’ingresso alla Casa Bianca di Reagan permise agli Stati Uniti di ribaltare le sorti della guerra fredda, ma il mondo fu in qualche occasione sull’orlo di un conflitto nucleare. L’empeachment di Trump potrebbe comportare per gli Usa un periodo d’ingovernabilità di cui, paradossalmente, trarrebbe vantaggio la maggior potenza rivale. Vero o inventato che sia, il Russiagate sta già facendo il gioco della Russia, e forse il tenente colonnello Putin sorride di tutto questo. Lui, che conosce la dottrina militare sovietica, a morire sui campi minati ci avrebbe mandato i collaboratori.