La mi’ nonna usava dire che “la ragione l’è de’ bischeri”: un vecchio detto fiorentino, crudele come solo i fiorentini sanno essere, e profondamente vero. In effetti, non c’è frase più odiosamente colma d’incapacità e d’impotenza di quella che invece piace tanto a troppi: “L’avevo detto, io!”. Chi riesce meglio degli altri a capire come una cosa andrà a finire ma non s’impone o non s’impegna a far valere il proprio punto di vista nell’interesse di tutti, è un incapace o un cinico: in entrambi i casi, fa bene a tacere.
Debbo dire che negli ultimi mesi ho avuto la sgradevole sensazione di trovarmi spesso proprio in queste condizioni, e mi sono morso le labbra per non pronunziare la fatidica frase idiota.
Purtroppo, d’altronde, c’è questa rubrica: attiva ormai da molti mesi. Se avete la pazienza di scorrerne le varie puntate, vi accorgerete che sono stato in effetti facile profeta. Già da alcuni mesi avevo sostenuto che il califfato era agli sgoccioli perché ormai gli Stati Uniti, l’Arabia saudita, il Qatar e la Turchia –con Israele in disparte ed Egitto e Giordania sullo sfondo – erano sula via di escogitare per il Vicino Oriente un rimedio. Peggiore del male, evidentemente. E avevo anche aggiunto che le cellule terroristiche, una volta fallito il processo di egemonizzazione territoriale tentato dal Daesh, avrebbero reagito incentivando la guerriglia terroristica “a gatto selvaggio” in Occidente agendo in franchising rispetto al califfo e seminando più terrore e più odio possibile contro l’Islam inteso in senso generico: ciò avrà – e già lo sta avendo – il risultato di aumentare al tempo stesso il numero dei musulmani che in qualche modo si orienteranno verso il jihadismo estremo, rappresentato dal movimento wahhabita, e di conseguenza (in un fatale cerchio maledetto) quello di chi dice, col presidente Trump, che ormai la misura è colma e che bisogna reagire al pericolo e farla finita col politically correct.
L’obiettivo di creare in Medio oriente realtà etno-confessionali è stato raggiunto
Nel Vicino Oriente, il processo avviatosi più o meno tre anni fa (tra la primavera e l’estate del 2014) con il tentativo di radicamento territoriale del “califfato” jihadista la funzione assegnata al quale dai suoi sostenitori-finanziatori-“mandanti” era quella di far saltare del tutto il vecchio equilibrio artificiale degli stati arabi (soprattutto Siria e Iraq) riorganizzandoli e frammentandoli in entità etno-confessionali, è quasi giunto al compimento. L’aggressione alla Siria, già avviata dal 2011 e sostenuta dalla Francia del geniale Hollande e dalla Gran Bretagna del lungimirante Cameron con l’apporto della solita balla delle terribili armi di distruzione di massa (uno squallido remaking delle bugie di Bush e di Blair tra 2002 e 2003 che condussero alla seconda guerra del Golfo), ha segnato il principio di una fase egemonizzata dalla politica e dalla diplomazia arabo-saudita e qatariota scopi ultimi della quale sono la diffusione missionaria del wahhabismo tra i musulmani della “diaspora” occidentale e l’attacco con ogni mezzo possibile all’Iran. La saggia politica del presidente statunitense Obama, col tentativo d’intesa americo-russa e con l’avvio del disgelo nei confronti dell’Iran del riformatore Kathami, aveva fatto ben sperare: ma si trattava di una linea che, per varie ragioni, disturbava anche la Turchia di Erdoğan costantemente preoccupata di opporsi alle istanze indipendentiste curde (e un nuovo Kurdistan sarebbe stato l’unico aspetto positivo della ridefinizione geopolitica vicino-orientale) e il governo israeliano che persegue una linea di sostegno a qualunque forma di danneggiamento della Siria di Assad e dell’Iran e di rovesciamento del governo irakeno egemonizzato dagli sciiti.
Il nuovo scacchiere
E’ ormai evidente che i tempi sono maturi per un nuovo atto della commedia: eliminazione del califfato salafito-wahhabita di Abu-Bakhr che ha completato la sua opera di destabilizzazione e sua sostituzione con un assetto geopolitico nuovo, che faccia emergere entità statuali o parastatuali sunnite sostenute da Arabia saudita e da Qatar negli ex territori di Siria e d’Iraq. In particolare un’entità irakeno-sunnita al centro del territorio irakeno, a minacciare gli irakeno-sciiti del sud del paese e magari lo stesso Iran.
La visita di Trump all’Arabia saudita ha avuto questo senso: la dichiarazione dinanzi agli sceicchi wahhabiti che solo l’Islam, in prima istanza il loro Islam, può sconfiggere il terrorismo jihadista che appunto nel salafismo-wahhabismo trova la sua giustificazione, somiglia molto all’offerta della presidenza dell’Associazione di Donatori Volontari del Sangue offerta a Dracula il Vampiro. Al tempo stesso, la conclusiva tirata antiraniana chiarisce quale sia il senso ultimo della politica trumpista, certo appoggiata da arabo-sauditi, qatarioti, turchi e israeliani, forse anche egiziani e giordani. E Dio non voglia che ci si trovi alla vigilia di un nuovo 2003: Dio non voglia che Trump commetta nei confronti dell’Iran un errore e un crimine analoghi a quelli che Bush compì nel 2003 nei confronti dell’Iraq.
Daesh non serve più
Il ruolo di Daesh è quindi superato: non serve più. Ora, la “grande coalizione” che l’ha combattuta fino ad oggi sconvolgendo il deserto con migliaia di raids aerei inutili (quasi un secolo di guerra aerea dimostra che nessuna forza aeronautica può pervenire al controllo di un territorio, funzione che riguarda giocoforza l’impiego di truppe di terra) è pronta alla grande stretta finale, con il necessario mutamento tattico. In che misura Trump vi farà partecipare anche quella NATO che non dimostra di aver simpatica, ma del ruolo egemonico nei confronti della quale non può fare a meno? Fino ad oggi il peso della guerra vera contro Daesh era sostenuto dai curdi, dagli eserciti lealisti siriano e irakeno e dai volontari pasdaran iraniani moderatamente appoggiati dalla Russia: ed è questa la vera coalizione che ne ha date abbastanza sode al califfo. Ma è proprio tale coalizione la vera nemica di Trump.
E’ però evidente che i jihadisti di al-Baghdadi non si lasciano gettar via come uno straccio vecchio: più perdono campo sul piano del controllo territoriale del Vicino Oriente, più intensificano la loro propaganda e la loro tattica di “guerriglia in franchising” al di là dei loro confini: diretta da un lato all’Europa (vi saranno nuovi fenomeni negli USA?), dall’altro all’Iraq e all’Afghanistan. Ciò spiega il recentissimo incrudelirsi degli attentati “a gatto selvaggio”, tra i quali rientrano probabilmente anche quelli contro le chiese copte d’Egitto contro i quali tuona però al-Sisi, e che trovano però in Europa degli esecutori in apparenza alquanto sprovveduti sul piano militare e poveri di mezzi su quello tattico-logistico. Poveri terroristi, terroristi poveri: musulmani europei disadattati che hanno probabilmente abbracciata il radicalismo islamista come presunto rimedio per la crisi dovuta al loro fallito inserimento nel contesto occidentale.
La Modernità che attrae e delude
Ancora una volta, la Modernità attrae e delude, promette benessere ma procura infelicità. Questa islamic trash europea, da certi quartieri londinesi a certe banlieues parigine, è la protagonista della più ripugnante tra le guerre, la “guerra tra poveri”. Questi miserabili che mitragliano e sgozzano a caso, muniti di false cinture esplosive, infierendo a tradimento tra la gente di tutti i giorni, la gente comune e innocente che passeggia o si diverte, sono tragicamente caricaturali: eppure uccidono e, da lontano, il califfo in via di rottamazione perché “mollato” dai suoi padroni (che sono anche i primi e più preziosi alleati dell’Occidente in terra araba) “rivendica” ringrazia e benedice. Sconfitta di Daesh e sua cancellazione territoriale appaiono direttamente proporzionali all’incrudelirsi di questo sanguinario e grottesco neoterrorismo straccione. Nel suo ultimo libro, Generazione ISIS (Feltrinelli), Olivier Roy inquadra bene questo fenomeno che in realtà non è neppure nuovissimo, quello dei giovani che scelgono Daesh, vale a dire il Nulla, per combattere l’Occidente che li ha delusi, li ha rifiutati, li ha respinti, non ha mantenuto nei confronti loro e di tanto come loro quella “felicità” il diritto alla quale i suoi Padri Storici hanno pur blaterato da circa un secolo e mezzo di proporre. Il punto, argomenta impeccabilmente Roy, non è tanto capire una degenerazione musulmana, quanto una degenerazione occidentale: quel che deve preoccuparci non è tanto la “radicalizzazione dell’Islam”, quanto “l’islamizzazione del radicalismo”: un radicalismo nihilista e disperato che è l’altra faccia della sazia e bovina soddisfazione di chi invece nel “nostro Occidente” si sente sazio e appagato, di chi crede che questo sia il Migliore dei Mondi Possibili e che “gli altri” ci odino perché no siamo i virtuosi difensori della Pace e della libertà, perché “amiamo la vita” mentre loro “amano la morte”. E’ il disagio della seconda o della terza generazione dei musulmani in Europa e dei cascami dei nostri stessi giovani postcristiani che guardano all’Islam come a una sorta di “ritorno selvaggio di Dio”. E’ il risultato del corto circuito che in loro è stato originato dal rapporto tra le lontane radici di una cultura alla quale sono appartenute le loro famiglie e che non è più la loro, che magari è profondamente mutata, e quella di un paese che è pur loro ma nel quale essi si sentono marginali, subalterni, disadattati. D’altronde, la loro ignoranza anche a proposito dell’Islam denunzia il fatto ch’essi siano anche dei salafito-wahhabiti “immaginari” (un po’ come i “marxisti immaginari” o i “fascisti immaginari” dei quali si parlava anni fa).
Le loro gesta non servono e non serviranno – perché, non illudiamoci, continueranno – a salvare il califfato jihadista di Daesh. Tuttavia, serviranno a chi tale califfato ha per lunghi mesi sostenuto e a uno dei suoi scopi primari: la diffusione del wahhabismo in Occidente, alla quale stanno fornendo un massiccio contributo i fondi elargiti da organizzazioni come la Wa’ba wahhabi o la Islam charity alla costruzione di nuove moschee e al radicamento in Europa di imam propagandisti della loro dottrina. Alla nuova dottrina giova ogni nuovo attentato perché semina nuovi occidentali convinti che “i musulmani sono tutti uguali” e che “con l’Islam non si ragiona”: il che serve egregiamente ai predicatori salafito-wahhabiti, scopo dei quali è accalappiare i musulmani devoti ma impreparati e disorientali mostrando loro che tutto l’Occidente “cristiano” è nemico del profeta e della sua legge.
Come combattere questa piaga? Non certo con l’abbandono del politically correct del quale irresponsabilmente sta blaterando Trump. Antislamismo di massa e bombardamenti a tappeto non servono. Occorre un qualificato e ramificato lavoro d’intelligence, che individui i nuclei terroristici; e una sistematica paziente opera di conoscenza reciproca, d’integrazione pratica e quotidiana, d’incontri e di scambi, che consenta la costruzione giorno per giorno, dal basso, di un Islam europeo. Ma attenzione: se questa scelta si affermasse, e desse segni di essere la strada vincente, i colpi di coda del terrorismo sarebbero almeno per un certo periodo ancora più rabbiosi. I nemici dei terroristi non sono i sostenitori che i musulmani sono dei “bastardi”, secondo l’etichetta scelta mesi fa da un giornalaccio milanese; son, al contrario, quelli che credono che la vera convivenza nasce dal mantenimento delle sacrosante differenze e dal rispetto reciproco di quanti ne sono portatori.