Se l’Isis rivendicasse i disordini accaduti in piazza San Carlo a Torino, nessuno potrebbe contraddirli. Il terrore è una malattia invalidante che si annida dentro il fegato di ognuno, a Torino la paura ha vinto.
Nessuna colpa c’hanno i ragazzi e le ragazze travolte dalla calca né quelli che son scappati quando hanno sentito nell’aria il timore di un’esplosione. Sarebbe troppo facile prendersela con loro, come da vezzo insopportabile di certi barbagianni che s’atteggiano a grandi bastian contrari. La colpa, semmai, è di una società che dovrebbe smetterla di criminalizzare la forza, la legittima difesa, il coraggio, la violenza atta a salvare la vita a sè e agli altri.
Contemporaneamente al caos di Torino, a Londra si son registrati nuovi fatti di sangue. Ancora una volta la beffa delle beffe: tre imbecilli con i coltelli hanno fatto strage nel cuore di una delle capitali dell’Occidente. La cifra del terrorismo islamico, dal 2001 ad oggi, sta proprio in questa scarsezza di mezzi che colpisce al cuore l’opulenza e la potenza dei Paesi liberi.
A Torino e a Londra s’è suonato un altro requiem al sogno postborghese del villaggio globale, dei ragazzi di ogni dove che si tendono la mano, facendo brillanti girotondi. La morale contemporanea ha voluto espellere la violenza e l’aggressività, caratteristiche prettamente maschili, facendone un tabù, scavando nel solco del cristianesimo delle origini, quello della “religione di schiavi”.
Senza conoscere cosa sia la forza e cosa sia la violenza, le reazioni sono drammaticamente buffe e tragicamente ridicole. Viviamo nel perenne terrore che esorcizziamo con bellicosi stati di Facebook. Ci fanno orrore dei vigliacchi infami con i coltellini perché noi non abbiamo più nulla per cui valga la pena di morire, nemmeno un vezzo estetico. Non abbiamo più coraggio, solo bile: la gioventù è un peccato, vecchiaia è tutto quello in cui crediamo.
Siamo morti e non vogliamo ammetterlo per scaramanzia.