“Ci vuole più Europa!” vs “Bisogna uscire dall’Europa!”. Come se questo misterioso lemma, Europa, animato da un indubbio potere magico – in termini di voti e poltrone, perlomeno – coincidesse con le istituzioni sovranazionali che hanno preteso di ereditarne la tradizione culturale, giuridica e spirituale. Dallo Ius Publicum Europaeum, passando per la novalisiana Cristianità (ovvero l’Europa), all’Unione Europea: il passo non è certo breve, ma proprio per questo racchiude in sé tutto il destino – tragico – di un mito che si è voluto fare storia senza preservare l’originario richiamo all’alterità assoluta. A quell’unico Principio che è garante del perpetuarsi di ogni mito, nel mutamento delle sue forme. Forme che inevitabilmente si trans-formano, che in-spirano lo Zeitgeist ed e-spirandolo convergono in immagini cangianti. Senza mai perdere, tuttavia, il legame con quel mondo archetipale che le mantiene in essere. Quando ciò, tragicamente, accade, le forme si sclerotizzano, avanza il regno della parodia, il sorriso dei Santi e degli Eroi cede il passo a quello di Macron.
Se le categorie di Destra e Sinistra, come Alain de Benoist e una folta schiera d’intellettuali ci segnalano ormai da decenni, non sono più lenti efficaci tramite cui leggere il panorama politico contemporaneo, anche la polarità europeisti-sovranisti, sebbene più calzante, suscita diverse incomprensioni. Le divergenze interne a questi blocchi, al secondo soprattutto, sono infatti numerose. Ma la più evidente, forse, è proprio legata alla visione dell’Europa che i sovranisti/identitari frequentemente (non) propongono.
Tralasciando una pur interessante fenomenologia delle proposte sulle istituzioni europee che da molti oggi vengono formulate, ci preme in questa sede limitarci ad alcune indicazioni di sorprendente attualità che provengono dalle pagine di un ormai introvabile saggio di Ernst Jünger, La pace. In questa breve e lirica opera, Jünger riflette sulle sorti dell’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale, prospettando un progetto di ricostruzione responsabile e comunitario che è fatalmente rimasto inattuato, relegato ai meandri della sua utopia. Fra le considerazioni contingenti e le riflessioni più filosofiche, Jünger offre anche alcuni segnavia fondamentali per evitare che la pacificazione europea resti solo superficiale e non conduca, dopo il sacrificio di un’intera generazione, alla raccolta del frutto decisivo in procinto di nascere. Un frutto che, stando a Jünger, è di natura imperiale. Il mondo post-1945 è segnato infatti dall’allentarsi delle frontiere agli albori della globalizzazione, e «rende possibile un progetto spirituale che ne travalichi i confini». Un progetto, ribadiamo, di natura spirituale:
«Oggi è giunta l’ora dell’unificazione e, con essa anche l’ora in cui l’Europa fonda se stessa nel matrimonio dei suoi popoli, si dota di sovranità e costituzione. L’aspirazione a questa unità è più antica della corona di Carlo Magno, e tuttavia non è mai stata tanto ardente, tanto pressante come in questo nostro tempo».
Questa istanza, che già «viveva nei sogni dei Cesari», si muoveva nella guerra civile europea come un’energia sotterranea, un segno di catastrofe e, insieme, di progettualità futura. L’Europa aveva – e ha ancora – un compito: «Divenire partner dei grandi imperi che si costituiscono sul pianeta e che aspirano alla loro forma definitiva. Deve partecipare alla libertà superiore che questi hanno già conquistato nei confronti dello spazio e della storia». Jünger aveva già intuito che l’Europa non può essere fondata semplicemente sull’applicazione intellettualistica delle leggi della ragione e su regole giuridiche astratte. La Società delle Nazioni, «una struttura fantasma», aveva già mostrato le fattezze di quanto viene costruito senza la mediazione del cuore. La liquefazione delle forme identitarie con l’accelerazione della modernità, l’avvento della mobilitazione totale e il dominio della forma del Lavoratore rendono tuttavia possibile operare attivamente per la “colata” di un nuovo ordine, fondato sui princìpi dell’unità e della varietà. «Il nuovo impero – spiega Jünger – dev’essere uno nelle sue articolazioni, ma nel rispetto della loro specificità». In una sintesi del modello liberale e di quello autoritario, Jünger evidenzia come «le forme dello stato d’ordine autoritario sono adeguate dove uomini e cose sono organizzabili con l’ausilio della tecnica. Mentre invece deve regnare la libertà dove è in atto una crescita più profonda». Così, su un piano attuativo, «organizzare in maniera unitaria è compito della tecnica, dell’industria, dell’economia, della circolazione, del commercio, dei sistemi di misura e della difesa», mentre «la libertà deve regnare nella varietà, là dove popoli e uomini sono differenti. Ciò vale per la loro storia, la loro lingua e la loro razza, i loro costumi, usi e leggi, la cultura, l’arte e la religione. In questi ambiti i colori della tavolozza non saranno mai troppi». È questo il progetto di Jünger: un’Europa dei popoli, un imperium orientato secondo un’unità organica ma capace di confrontarsi con il mondo della tecnica, identitario e plurale, animato da «forza spirituale», autonomo ma aperto alla collaborazione con la Chiesa cristiana e la sua tradizione metafisica.
In questi giorni, in tutte le librerie si può acquistare il pamphlet di Emmanuel Macron, Rivoluzione. A chi ancora intende sondare le profondità del pensiero per interpretare il mondo e, magari, scegliere in modo spregiudicato come schierarsi, un invito spassionato: uscite dalla Feltrinelli, chiudete la homepage di Amazon e cercate da un buon libraio La pace di Ernst Jünger. Il guadagno, interiore almeno, vi ricompenserà.