La scuola finiva proprio oggi. Chi c’è mai andato in classe, finché ha potuto, a giugno?
L’aria ancora fresca della primavera man mano s’arroventava seguendo le lancette dell’orologio. Annunciava l’estate dei calzoncini corti e slabrati, delle magliette che passavano di fratello in fratello. Sull’asfalto dei cortili, dei parcheggi, dei condomini un suono insistente rimbalzava ovunque annunciando l’ingresso dell’estate. Era quella la voce del più grande amico d’infanzia per generazioni intere di ragazzi italiani: il Super Santos.
Prologo.
Arancione, con le linee nere e le scritte gialle destinate a scolorirsi a causa dei calcioni che pigliava. Aveva tanti parenti, più o meno simili a lui: il Super Tele, più leggero e apprezzato dagli amanti dell’effetto oppure la replica plasticosa dell’Etrusco, il pallone di Italia ’90, che – se possibile – era ancora più lieve e imprevedibile, perciò al limite della praticabilità. La magia del Super Santos era duplice: trasformava uno slargo grigio e smunto nel Maracanà e, contemporaneamente, ci insegnava la dura realtà della vita e la cattiveria della gente.
Se questa è una generazione che si sbraccia a far collette è perché ha imparato a raggranellare le 3mila lire del pallone ogni volta che il Nemico (le cui epifanie erano numerose e molteplici, dal nerboruto vicino alla befana solitaria che coltivava sul balcone piante strane per farne intrugli) lo ghermiva e non lo restituiva più.
Piccole mitologie metropolitane.
La curva (immaginaria) che (auto)esaltava quei campioncini si ammutoliva quando, dopo un contrasto o (peggio ancora!) dopo aver tirato altissimo e malissimo la palla, finiva nel cancello del vecchietto assassino, o peggio ancora, sul balcone di quella dolcissima e infame vecchina, sanguinaria accoltellatrice di Super Santos. Quanti palloni sono finiti male, quanti palloni sono stati bucati, tagliati, schiattati da gente che tornava dal turno di notte e aveva appena pigliato sonno, quanti per mera vendetta spietata e tributata alla memoria di vasi di fiori, piantine di basilico.
La regola era di solito “meritocratica”: chi lo tira, va a prenderlo. E si scavalcavano ringhiere più alte dei monti scalati da Messner, si invadevano giardini incantati custoditi da ferocissimi cani da guardia, ci si appropriava del tesoro e si scappava mentre – quando l’avventura era abbastanza epica – tutti i tuoi pari facevano il tifo per te. Perché, spesso, rischiavi davvero la vita per ripigliarti la palla. Erano tutte piccole (e grandi) prove di coraggio, veri e propri riti di passaggio destinati a scrivere la storia di quelle piccole comunità e comitive, a scolpire i ricordi più belli.
S’intrecciavano quelle prove e quei sogni di gloria, alle mossette imparate dalla tv, alle mazzate che inevitabilmente si presentavano insieme a un fallo troppo pesante, all’invocazione dei propri numi tutelari (E chi so’ Maradona? Baggio…Baggio…gol!), alla desacralizzazione e oltraggio alle divinità nemiche (Gullit? Culit! Baggio? Piaggio! uè trerrote! – allusione allo sgraziato incedere dell’Apecar) alla hybris del dribbling di troppo, alla solida concretezza di due pali fatti con le pietre e di una traversa a occhio e braccia, a un codice sportivo senz’arbitro che col calcio non c’entrava niente (magari era più simile alla stele di Hammurabi), con regole folli che tutti conoscevano, rispettavano e interpretavano manco si fosse in un consesso di giuristi e fulguratores.
Epilogo.
Il Super Santos ci accompagnò anche quando scoprimmo che era meglio se iniziassero a giocare con noi anche quelle bambine che s’andavano a far donne. E allora c’inventammo pallavolisti che a “Sette si schiaccia” (trovammo la scusa di Andrea Lucchetta, dell’Italvolley per giustificarci di fronte a quello che finora avevamo giudicato sport da femmine), perché il calcio come lo intendevamo era troppo violento e a loro non piaceva. Poi arrivarono i motorini e i primi amori, le prime scoperte e senza accorgercene diventammo grandi.
Lui, il Super Santos, rimase lì in un angolo sporco, mezzo sgonfio ma fedele. Spirito guida di una generazione che non lo ha dimenticato e se lo porta sempre dietro, nel bagagliaio dell’auto dove conserva, insieme ai sogni infranti e all’esperienza di una vita, la speranza segreta di trovare un altro cortile da trasformare in uno stadio illuminato.
Nota a margine.
Proprio dopo aver finito di scrivere queste righe, ho sentito gridare da giù. C’era un ragazzino che avanzava gigioneggiando un dribbling, sfotteva un altro amichetto con la maglia del Barcellona, oltraggiando sarcastico quello che evidentemente è il di lui totem: “Cessi, Cessi!”. Gli altri stavano facendo la conta, disputandosi il diritto di scegliere per primi la squadra. Ai loro piedi rotolava una macchia arancione, era lui: il Super Santos.