John Terry, Philip Lahm. E poi se ne andrà pure Francesco Totti. È l’anno in cui ci accorgeremo che stiamo invecchiando anche noi. Loro hanno iniziato a giocare quando c’era ancora Pc Calcio, finiscono ora che i ragazzini (solo loro?) giocano a Pes o Fifa. Sono passati tanti anni, il calcio è cambiato e loro l’hanno traghettato là dove è oggi.
John Terry è stato il capitano del Chelsea, la prima squadra acquistata e gestita da un nababbo, il signor Abramovich, che ha cambiato per sempre il modo di intendere il mercato. Spendere e spandere fino allo stremo, far sentire la potenza del denaro e costruire vere e proprie corazzate, piene di galli in un pollaio finalmente vincente. Forse, a tutt’oggi, Roman Abramovic è l’unico spendaccione che abbia davvero vinto qualcosa. E lo ha fatto quando ha capito che bisognava stringere i cordoni della borsa. Terry ha esordito con la maglia blue nel 1998, quando c’erano Roberto Di Matteo, Pierluigi Casiraghi e Gianfranco Zola, The Magic Box. In panchina c’era Vialli. Lascia oggi che il tecnico è Antonio Conte, vincente nato e ci sono Edin Hazard, Cesc Fabregas e Diego Costa. In mezzo una storia di trofei e vittorie, delusioni (tipo lo scivolone dal dischetto che regalò la Champions allo United) e soddisfazioni. Al 26esimo del suo ultimo match gli hanno tributato il giusto riconoscimento.
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Philipp Lahm è entrato nel Bayern Monaco che aveva solo undici anni. S’è fatto tutta la trafila, passando per un periodo di irrobustimento (una volta si diceva per farsi le ossa) in prestito allo Stoccarda. Lo promuove, lo scopre e lo coccola Felix Magath, saluta che in panchina c’è Carletto Ancelotti. Inizia (da titolare) vincendo la Bundesliga, finisce vincendo il titolo tedesco. Dal 2005 ad oggi la carriera di Lahm è quella di un fuoriclasse gentile, umile e bandiera di un club che è il più prestigioso di tutta la Germania. È stato tra i puntelli della rinascita del calcio nazionale in Germania, dopo la cocentissima batosta di Euro 2000. Quella volta i tedeschi temettero, davvero, di non aver più nulla da dire al calcio. Così si misero sotto a lavorare. E quattordici anni dopo, la Mannschaft alzerà al cielo la quarta coppa del mondo della sua storia. Quel giorno, Philipp Lahm – emblema dell’ultima generazione d’oro del pallone germanico – c’era. Era il capitano.
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Francesco Totti è la Roma. Non era facile, eppure non c’è oggi (e non sarà facile riuscirci in futuro), una bandiera giallorossa più alta e orgogliosa. Romano de Roma, supera in affetto (che tracima in vera e innamoratissima ossessione) Bruno Conti, Falcao e ha eclissato quasi da subito il fantasma del Principe Giannini. Boskov lo fa esordire, Mazzone lo scopre, Zeman lo forgia, Carlos Bianchi voleva venderlo alla Sampdoria. Questa è ua metafora possibile della sua carriera: o lo si ama alla follia oppure lo si “odia”.
Totti lascerà da Re, assoluto monarca di Trigoria. Quando cominciò, l’eco di Italia ’90 era ancora lungi dallo spegnersi. Nel ’93, c’erano il Milan degli Invincibili e il Parma di Cragnotti, la Juventus si era ricostituita con il Trap, Foggia viveva il sogno di Zemanlandia, Massimiliano Allegri era il capocannoniere del Pescara di Giovanni Galeone. E Luciano Spalletti spendeva gli ultimi scampoli della carriera da calciatore nell’Empoli. Oggi il Milan è quello degli Inguardabili, il Parma spera di strappare una promozione in B, la Juventus è più solida del granito con Allegri in panchina e a Pescara, il Boemo si rimette in gioco a settant’anni suonati. In mezzo una storia povera forse di trofei ma ricca di momenti esaltanti, soddisfazioni e vette altissime raggiunte in campo e fuori.
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