Che cosa c’azzecca la “Scuola di Partito Pier Paolo Pasolini”, inaugurata dalla prolusione di Matteo Renzi su “Il riformismo”, con l’autore degli “Scritti corsari”? E che fine ha fatto, in quella sede, la “verticalità del pensiero”, rivendicata da Massimo Recalcati nell’introduzione programmatica al corso, dopo la piatta autodifesa familiare del Segretario del Pd?
Nel maldestro tentativo di dare un minimo di respiro culturale ad una classe dirigente schiacciata – parole sempre di Recalcati – “sulla dimensione acefala dell’attualità” il richiamo a Pasolini appare un’operazione-immagine che, nei fatti, snatura il pensiero pasoliniano, consegnandolo alla più volgare strumentalità politica.
E’ il vuoto di potere in sé – evocato da Pasolini nel famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole – ad avanzare. E’ l’incapacità di comprendere i cambiamenti, speculare al disamore verso un popolo, del quale non si colgono le esigenze reali, che rende ancora più soffocante l’abbraccio tra il Pd di Renzi e le memorie pasoliniane. E’ ipocrisia verso una memoria con cui non si è mai realmente fatto i conti che rende fasulla la scommessa, laddove vengono evocate “lo sguardo storico-genealogico, il pensiero articolato, la capacità di leggere con strumenti adeguati le trasformazioni in corso e i nuovi orizzonti del mondo contemporaneo”.
Il Pd – non lo si dimentichi – è l’erede storico di quel Partito Comunista che aveva espulso Pasolini per “indegnità morale”, denunciando nel provvedimento a carico del poeta “… le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della generazione borghese” (“L’Unità”, 29 ottobre 1949).
Con lo stesso fervore moralistico di allora il partito di Renzi è oggi l’espressione del partito borghese e radicale di massa contro cui Pasolini si scagliò, denunciando l’aborto, l’omologazione consumistica, la scomparsa delle lucciole. E prima ancora la falsa contestazione dei giovani borghesi del ’68, coccolati dalla cultura dominante (di sinistra), laddove Pasolini andò oltre, simpatizzando provocatoriamente con i poliziotti (“perché – scrive – sono figli di poveri./ Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”) contro i “figli di papà” ricchi e borghesi.
Di questo e di ben altro dovrebbe parlare una “scuola” che si intitola a Pier Paolo Pasolini, aprendo finalmente una riflessione matura sul senso della crisi delle ideologie e sulla necessità di superarla senza nulla concedere all’invadente potere di un neocapitalismo, laico, tecnocratico e finanziario, a cui è proprio la “contestazione” dei valori tradizionali che ha lasciato libero il campo.
“Che cos’è che ha trasformato – si chiedeva Pasolini – i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le “masse” dei giovani in “masse” di criminaloidi? L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una “seconda” rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la “prima”: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà”.
Ecco un bel discrimine su cui varrebbe ancora la pena di interrogarsi, dentro e fuori certe “Scuole di partito”: il senso del bene e del male e le ragioni di una pietà che, oggi, è venuta meno. Altro che Renzi ed il suo piccolo “riformismo”.