In Francia (e non solo) il vecchio Socialismo è morto. Ad ucciderlo non sono state solo le pessime esperienze di governo, quanto soprattutto l’ambiguità dei suoi leader, esempi viventi dello svuotamento delle appartenenze ideologiche, nell’innaturale commistione tra individualismo borghese e aspettative frustrate di cambiamento sociale.
Oggi, nell’immaginario socialista ad avanzare non è più il Quarto Stato, il fronte del lavoro forgiato dai sacrifici, ma il mondo arcobaleno della società gaudente, pacifista (e quindi tutt’altro che disposta ad affrontare la lotta sociale), abortista (e perciò non proletaria), antiproibizionista (e dunque votata alla fuga dal reale), transgender (ed allora condannata ad essere senza identità).
In questo socialismo non c’è più spazio per l’Avvenire da conquistare, per i miti dello sciopero generale di soreliana memoria, per la “funzione civilizzatrice” del mondo del lavoro teorizzata da Karl Marx.
Ad avanzare è ancora la Rivoluzione dell’89, quella coerentemente individualista, formalisticamente avvinghiata ai diritti dell’Uomo, dove – per dirla con Isaac René Guy Le Chapelier, l’uomo che abolisce il vecchio ordine sociale – “a nessuno è permesso di ispirare agli altri cittadini un interesse intermediario, di separarli dalla cosa pubblica con uno spirito di corporazione”. Ecco la parola chiave oggi ritornata al centro della vulgata liberal-socialista: “disintermediare”, rompere cioè i vecchi vincoli, le appartenenze tradizionali, i legami sociali, nel segno del neoindividualismo, sradicato e sradicante. Senza Patria, né Classe. Né un Dio in cui credere. Né un’etica a cui conformarsi.
Tutto perduto dunque ? Tutto destinato alla più grigia omologazione ? Al contrario: mentre si sfarinano le vecchie appartenenze una nuova domanda di socialità sembra emergere.
Niente a che fare con il vecchio determinismo di classe, con le utopie internazionaliste, con le visioni materialistiche, assiomi di fondo che, nel corso dei secoli, hanno portato – come si è visto – alla sostanziale assimilazione tra socialismo e liberal-capitalismo.
Avanza un nuovo anelito sociale, ancora frammentato e confuso, che parla, malgrado tutto, il linguaggio della solidarietà, sperimenta l’auto organizzazione, traduce in forme associative la domanda partecipativa. Ha base etiche, ma è tutt’altro che astratto. Rivaluta l’identità nazionale, riconoscendo nei territori e nelle comunità di produzione un valore irrinunciabile. Rifiuta l’anonimo potere finanziario, ma non disdegna il confronto con la “controparte”, rappresentata da un capitalismo reale, produttivista, sfidante. Non è un’ideologia codificata, quanto piuttosto una serie di quesiti che attendono risposte sul valore del lavoro, sul recupero delle identità familiari, professionali, territoriali e nazionali, sul senso della democrazia, sugli spazi di una nuova giustizia sociale.
Oggi, semplificando, si tende a rinchiudere questo nuovo anelito nel girone del “populismo”. In realtà è il sintomo di una domanda generale di nuove sintesi e di nuovi linguaggi, in grado di superare le vecchie appartenenze novecentesche, riorganizzandole sulla base degli interessi superiori delle collettività, laddove il Socialismo ha fallito ed il neoliberalismo sta creando solo macerie. Il vero problema, preso atto della crisi in atto, è trovare un’Idea capace di coagulare tante aspettative, riuscendo a declinare la forza di un progetto con le speranze della gente.
Impresa non facile. Qui più che di filosofi o di politici c’è bisogno di Poeti.