Pubblichiamo la puntuale introduzione di Gennaro Malgieri, tra i massimi interpreti del pensiero rivoluzionario conservatore in Italia, al libro “Ritratti del coraggio” di John Fitzgerald Kennedy per Oaks, un viatico per approfondire la storia di un “conservatore inconsapevole”
John F. Kennedy, icona indiscussa dell’universo liberal, merita, a cinquantaquattro anni dalla tragica morte di essere riconsiderato al di là delle apparenze e delle strumentalizzazioni. Sarebbe ingiusto ritenerlo superficialmente soltanto un sostenitore dei “diritti civili” dimenticando che è stato anche un corrosivo critico del pacifismo, un nazionalista fedele nella sostanza alla “dottrina Monroe” del 1823 (completata dal corollario di Theodor Roosevelt che l’aggiornò nel 1904 e dalle interpretazioni estensive che ne venne fatta tra le due guerre del secolo scorso), un realista e non un sognatore il cui pensiero potremmo definirlo “politicamente scorretto” a fronte del radicalismo laico e liberal-democratico.
Per lungo tempo Kennedy è stato suo malgrado estrapolato dal contesto culturale che gli era proprio per assumerlo come simbolo assoluto di una “nuova frontiera” sconfinante nel variegato paesaggio politico di una immaginaria sinistra mondiale. Kennedy riportò il partito democratico dopo otto anni alla Casa Bianca, dove nel corso della sua breve permanenza ebbe modo di dimostrare all’America ed al mondo, in piena “guerra fredda”, che la politica che perseguiva difficilmente poteva essere declinata in maniera partigiana soltanto perché era animata anche da legittime ed encomiabili battaglie civili ed ideali non dissimili, nello spirito, da quelle che nel secolo precedente un suo predecessore repubblicano, Abraham Lincoln portò avanti, a cominciare dall’abolizione della schiavitù. Se i democratici ne hanno fatto un mito non per questo il Grand Old Party si è sottratto al suo fascino. Larry Sabato, autore tra l’altro di The Kennedy Half-Century: the presidency, assassination and lasting legacy of John Kennedy, ha provato come Reagan ed i suoi più stretti collaboratori, soprattutto intellettuali, abbiano cercato di “appropriarsi” (è il termine che usa Alessandra Baldini nell’articolo Kennedy un falso liberal. A 50 anni dalla morte l’America lo scopre conservatore , pubblicato su “America oggi” il 3.11.2013) della “legacy kennedyana” fino a comporre un florilegio di citazioni del presidente da usare per incoraggiare i democratici ad approvare i provvedimenti repubblicani in materia fiscale.
Un Kennedy bipartisan, dunque? Non è una bestemmia. Come tutt’altro che forzato è annoverarlo tra i “conservatori inconsapevoli”, per quanto militante democratico tenendo conto del suo pensiero prima che dei suoi atti politici più rilevanti. Sempre Larry Sabato, in un articolo scritto per il “Washington Post”, ha sostenuto: “La leggenda del ‘presidente liberal’, un’idea tanto diffusa, quanto falsa, perché Kennedy è oggi associato al movimento dei diritti civili e perché la sua eredità è legata a quelle dei suoi fratelli, gli assai più liberal Bobby e Ted. In realtà JFK era un capo cauto e conservatore, un conservatore fiscale, attento alla spesa e al deficit, e promosse un taglio delle tasse che divenne il modello su cui si basò Ronald Reagan nel 1981. La sua iniziale retorica delle Guerra Fredda era così aggressiva al punto di essere citato spesso sia da Reagan che da altri repubblicani nella battaglia contro il comunismo. E Kennedy era così esitante e timido in materia di diritti civili da frustrare i leader del movimento, fino a quando non sviluppò una sua visione per l’uguaglianza di diritti nel giugno 1963”.
Nel suo libro Kennedy un socialista alla Casa Bianca (Historica), Santi Cautela cita l’opinione di Norman Podhoretz, neocon fondatore della rivista “Commentary, che in una intervista rilasciata a Maurizio Molinari per “La Stampa”, sosteneva che Kennedy “era un ‘Old Democrat’ e la sua eredità politica si trova tutta nel campo dei conservatori”. Infatti, secondo l’intellettuale statunitense, la sua campagna presidenziale ebbe gli stessi accenti reaganiani di vent’anni dopo: tagli al fisco, aumento delle spese militari, abolizione delle discriminazioni individuali. E’ abbastanza consolidata l’opinione tra gli studiosi di estrazione democratica oltre che repubblicana che Kennedy non era un liberal nell’accezione corrente, distante, insomma, anni luce da Barack Obama come da Bill Clinton, Al Gore e John Kerry.
Del resto il suo conservatorismo, per quanto atipico, emerge con sufficiente chiarezza, al di là delle pur legittime interpretazioni contrarie, dai suoi due libri che ebbero una straordinaria risonanza al tempo in cui li pubblicò, prima di essere eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960. Curiosamente non vengono mai citati dagli apologeti improvvisati della sinistra europea che ha dovuto varcare l’Oceano per riempirsi la sacca di nuovi idoli dopo il fallimento del comunismo e l’insostenibile leggerezza di un socialismo talmente annacquato fino ad essere irriconoscibile nelle odierne declinazioni di un welfare inadeguato e deficitario. Hanno incontrato il Kennedy, che gli faceva più comodo. O meglio, se ne sono presi lacerti di pensiero buoni da legittimare se stessi, almeno così hanno creduto.
Se avessero sfogliato Why England slept, edito nel 1940, e Profiles in Courage, uscito nel 1956, quando era senatore proiettato verso la Casa Bianca, si sarebbero resi conto che il Kennedy “conservatore” mal si conciliava con l’idea che se n’erano fatti ed abilmente diffondevano per coprire la catastrofe abbattutasi sul loro mondo. Entrambi i libri, non a caso, furono pubblicati in Italia dalle Edizioni del Borghese, rispettivamente nel 1964 ed alla fine di luglio del 1960, a pochi giorni dalla nomination, con i titoli Perché l’Inghilterra dormì e Ritratti del coraggio, questo, nella prima edizione, con una lettera-prefazione di Luigi Einaudi sollecitata dal traduttore che ne promosse la pubblicazione, il letterato americano Henry Furst, compagno d’armi di d’Annunzio a Fiume, poi, nel dopoguerra, vicino agli ambienti missini.
Il primo saggio, preludio in qualche modo del secondo che vedrà la luce sedici anni dopo, è una sorta di apologia di Winston Churchill che nel 1938 aveva scritto un libro nel quale a dir poco si mostrava indulgente verso i regimi autoritari europei ed in particolare nei confronti del fascismo. Il giovane JFK sottoponeva a dura critica le democrazie per la loro incapacità di affrontare la guerra e di produrre uomini politici in grado di esercitare il comando. “Il sistema che funzionerà in tempi di emergenza sarà quello che sopravviverà”, scriveva rivolgendo una critica esplicita al “modello” britannico che pure si proponeva come esempio alle democrazie occidentali. Del resto, come è noto, gli inviati a Roma dell’Fbi di John E. Hoover, avevano segnalato che il figlio dell’ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, “è a favore del sistema corporativo fascista che tutti gli italiani, secondo lui, accettano di buon grado”. Mentre gli informatori da Madrid segnalavano che il giovanotto “auspicava la vittoria di Franco” dopo essersi inizialmente schierato con i “repubblicani”. Lanfranco Palazzolo, nella sua originale e documentatissima biografia di JFK, Kennedy shock (Caos edizioni, 2010), conferma il sostegno al franchismo “anche durante gli anni successivi”. Nel 1950, intervenendo sugli aiuti americani al Generalissimo, Kennedy disse: “La domanda che dobbiamo farci prima di decretare aiuti militari a un paese è una sola: quel paese è colpevole di aggressione nei confronti di altre nazioni? Nel caso della Spagna la risposta è no”. Dean Rusk, segretario di Stato, confermò subito dopo l’insediamento l’amicizia degli Usa a Franco. E tale la linea rimase.
Ci volle coraggio. Quello stesso coraggio che otto uomini politici americani del secolo precedente avevano testimoniato ispirando a Kennedy il suo libro più famoso che nel 1957 ottenne, suscitando polemiche velenose nel campo democratico, il Premio Pulitzer: Ritratti del coraggio, appunto, una sorta di bibbia per la maggior parte degli americani che detestavano le demagogiche promesse dei progressisti, ma che nel contempo gli attirò gli strali dell’intellighentia liberal. Quando sembrava che Kennedy dovesse dovesse diventare soltanto vice-presidente, Eleanor Roosevelt, acida come sempre contro chi non gli era simpatico, disse: “Penso che mi sarebbe difficile prendere gravi decisioni che spetteranno al nuovo presidente, avendo al fianco una persona che sa che cos’è il coraggio e lo ammira, ma che non ha la forza di essere coraggioso”. Nonostante le intemerate della vedova più potente d’America, il libro è rimasto a lungo un testo caro ai conservatori d’Oltreoceano non solo perché “tratta della più ammirevole delle virtù umane, il coraggio”, ma soprattutto per il fatto che egli ricordò, riferendosi a John Quincy Adams, che un politico deve essere servitore non del popolo, ma di Dio, dando prova di disprezzare la facile popolarità come gli esempi che i biografati offrivano agli americani.
Ritratti del coraggio maturò in Kennedy durante la convalescenza a Palm Beach nel 1955 seguita all’operazione chirurgica alla schiena. Il primo “abbozzo” di quello che sarebbe diventato il suo manifesto morale ed ideologico fu un lungo articolo intitolato “Modi di coraggio politico”. Lo inviò ad “Harper’s Magazine” che lo pubblicò incoraggiandolo così ad una ricerca meticolosa nella Biblioteca del Congresso, con l’aiuto del giornalista conservatore Herbert Agar, del materiale su cui avrebbe modellato il suo libro che uscì il 2 gennaio 1956 edito da Harper & Brothers intitolato Profiles in Courage. Erano i “ritratti” di “eroi” della politica in quanto solleciti nel sostenere contro i loro stessi interessi (o di quelli dei partiti di appartenenza), gli interessi della nazione. John Quincy Adams, Daniel Webster, Thomas Hart Benton, Sam Houston, Edmund G.Ross, Lucius Lamar, George Norris, Robert A. Taft colpirono il giovane politico suscitandone l’incondizionata ammirazione. Ed ebbe indubbiamente coraggio Kennedy, sfidando l’establishment, nell’inserire tra i suoi profili proprio l’ultimo, quel Taft, senatore repubblicano dal 1938 al 1953 che si oppose tenacemente alla celebrazione del processo di Norimberga argomentando che quel Tribunale costituito per processare e condannare i vinti, minava i principi fondamentali della democrazia. Gli importò poco all’autore che venne subissato da critiche violente per questa sua scelta etichettata come “filo nazista”.
Ma la simpatia per Taft aveva comunque altre motivazioni, tutte politiche che afferivano alla dottrina che il vecchio conservatore esprimeva in seno al suo partito nel quale non era del tutto sempre compreso. Scriveva Kennedy che coloro i quali si scandalizzavano per le originali ed indipendenti pretese di posizione di Taft non capivano come il suo conservatorismo “contenesse un forte elemento di pragmatismo, che lo induceva a sostenere una intensa attività federale nelle zone inadeguatamente servite, a suo giudizio, dal sistema dell’iniziativa privata. Taft non riteneva che ciò fosse in contrasto con la dottrina conservatrice; il conservatorismo, secondo lui, non era irresponsabilità. Così egli diede nuove dimensioni alla filosofia conservatrice; le rimase fedele quando toccò il livello più alto di prestigio e di potere, e la ricondusse al livello della responsabilità e della rispettabilità”. Non diventò presidente, come suo padre, perché non fu accomodante, ma si guadagnò l’appellativo di “Mister Integrity”. Kennedy ne era affascinato anche perché Taft veniva da una famiglia che aveva dato innumerevoli uomini politici all’America tutti con il carattere dell’ultimo rampollo e con lo stesso obiettivo: servire la nazione piuttosto che se stessi, al di là dei partiti e talvolta perfino delle aspettative degli elettori quando non coincidevano con il bene comune. “Nacque nell’integrità”, osservava Kennedy. Al Senato era conosciuto “come uomo che non violò mai un accordo, che non venne mai a patti con i suoi principi repubblicani profondamente sentiti, che non praticò mai l’inganno politico”. Harry Truman, suo acerrimo nemico, quando Taft morì disse: “Lui ed io non fummo d’accordo sulla politica, però egli conosceva la mia posizione ed io la sua. Abbiamo bisogno di uomini intellettualmente onesti come il senatore Taft”.
Tra tutti i biografati Taft, insieme con Quincy Adams sembra quello a cui Kennedy era più “affezionato” se così si può dire; un affetto che tuttavia, non gli impedì nel 1959 di scrivere una recensione ad un libro su McCarthy di Richard H. Rovere, nella quale, come ha notato Palazzolo, “Kennedy diresse diresse il suo fuoco più violento non contro McCarthy, ma contro il senatore Robert Taft”. Quello stesso che aveva elogiato nei suoi Ritratti. Debolezza di un leader che sentiva il profumo della vittoria? Probabile, ma non in linea con i suoi “miti” . L’episodio, comunque, non inficia il significato del saggio kennedyano nel quale la sincerità è indiscutibile verso i suscitatori di ideali riversati in comportamenti specchiati che, comunque, furono di esempio al giovane politico il quale, non a caso, in epigrafe al suo libro pose le nobili parole del fondatore del conservatorismo, Edmund Burke, pronunciate nell’encomio di Charles James Fox in occasione dell’attacco contro la “East India Company”, alla Camera dei Comuni nel 1783: “…egli ha messo a repentaglio il suo agio, la sua sicurezza, i suoi interessi, il suo potere e perfino la sua popolarità… Egli viene denigrato e ingiuriato per motivi presunti suoi. Egli si ricorderà che la calunnia è un ingrediente di ogni vera gloria…”.
Il libro fu pubblicato in Italia – dove le destre (anche questo è stato dimenticato) sostenevano Kennedy nella corsa contro Nixon – senza particolare risonanza anche se la prima edizione venne esaurita in breve tempo. L’idea di tradurlo, come accennato, fu di Henry Furst, collaboratore del “Borghese”, intellettuale americano che scelse l’Italia come sua seconda patria. Ammirava Kennedy sia perché cattolico come lui, sia per vita delle comuni origini irlandesi. Nel libro colse lo “spirito conservatore” che lo animava e lo considerò funzionale ai disegni della costruzione di una possibile destra in Italia, depurata dal pregiudizio neo-fascista e “luogo” di raccolta politica per tutti coloro che nutrivano profondi sentimenti anti-progressisti e laicisti. Gli articoli che Luigi Einaudi pubblicava sul “Corriere della sera” lo indussero a chiedergli una prefazione che l’ex-presidente scrisse in forma di lettera piuttosto deludente, tanto che nelle edizioni successive non venne riproposta.
Dopo la vittoria delle primarie e la scelta della Convention del Partito democratico che confermò la candidatura di Kennedy alla presidenza il 3 luglio 1960, Furst, sul “Borghese” scrisse: “Siamo, da due anni, così convinti che il senatore John Fitzgerald Kennedy sarebbe stato il candidato alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre 1960, che in questi giorni esce, per le Edizioni del Borghese, un libro del senatore, Ritratti del coraggio”. E così motivava il suo kennedysmo: “Le prossime elezioni verranno combattute esclusivamente, e si comprende, sulla politica estera . E la politica estera oggi vuol dire esclusivamente rapporti con l’Urss. Ora, soltanto la Chiesa Cattolica, nel mondo intero, offre la garanzia di una opposizione totale, intransigente, senza ‘se’ o senza ‘forse’, al bolscevismo e alla luce del nichilismo che minaccia di ingoiare la civiltà occidentale. Kennedy in tutti i suoi discorsi ha insistito su questa necessità…”.
La prima tiratura del libro andò esaurita in pochi mesi, ma la grande stampa lo ignorò e non suscitò quella discussione pubblica che ci si augurava. Un fatto davvero singolare considerando che l’autore stava per diventare il presidente degli Stati Uniti. Furst, sempre sul “Borghese” osservò: “I recenti avvenimenti ci fanno comprendere perché i nostri grandi giornali si sono così scrupolosamente astenuti dal recensire il libro da noi pubblicato nel luglio scorso, d’un nuovo venuto nella letteratura mondiale. Avevamo sperato che il giovane autore forse abbastanza importante perché il ‘Corriere della sera’ e ‘Il Messaggero’ gli dedicassero almeno una mezza colonnina. Forse la parola di difficile comprensione contenuta nel libro, ‘coraggio’, ha dato fastidio ai critici? … Del resto, non c’era nulla nel libro che potesse invogliare un critico moderno a parlarne: nulla di osceno, nulla di licenzioso, nulla da solleticare gli appetiti. Una prefazione di Luigi Einaudi? Il coraggio nella politica? Questioni troppo scabrose, non si sa mai. un giornale ufficioso non deve cercare i guai, ma evitarli: così ragionano i nostri don Abbondio, che oggi fanno i direttori di giornale”.
Il conformismo era allora come oggi un vizio radicato negli intellettuali, soprattutto di sinistra. All’epoca non era tollerabile (o incomprensibile?) che un democratico americano fosse influenzato da orientamenti intellettuali conservatori quando l’egemonia culturale comunista condizionava anche chi comunista non era in funzione filo-sovietica. Due intellettuali di sinistra, nel 1964, Luigi Covatta e Gino Rocchi, scrissero che l’esaltazione del coraggio politico fino ad identificarlo con la capacità di sottrarsi ai condizionamenti di partito era una posizione sostenuta in Italia soltanto dai “reazionari di estrema destra”. “Il Borghese” esultava; i borghesi guardavano a sinistra. E cominciarono a sbagliare nel giudicare Kennedy.
Il presidente ucciso a Dallas, fu certamente un innovatore della politica americana, ma fu anche – e non è un particolare trascurabile – un difensore dei valori civili che coincidono con un sentimento di responsabilità che si può nutrire e praticare soltanto credendo in qualcosa di più alto: “Il senso di responsabilità di John Quincy Adams verso il Creatore – si legge nei Ritratti del coraggio – lo accompagnava in ogni fase della sua vita”. E’ il principio che informa l’etica conservatrice. Le pagine di Kennedy ce lo ricordano.