Ricordiamo Luisa Ferida e Osvaldo Valenti nell’anniversario del loro assassinio, il 29 aprile 1945 a Milano
Lo schermo e la vita, l’eterna commistione tra desiderio e realtà, tra ruolo ed essenza, tra evasione ed esaltazione della realtà: il gioco insistito e ripetuto diventa totalmente coinvolgente e imprigionante fino a scatenare il dramma finale, come nel caso di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, i due amanti “diabolici” fucilati il 30 aprile del 1945 a Milano dai partigiani della divisione Pasubio.
Ferida e Valenti o della seduzione: la loro vicenda umana è esemplare ed esplicativa per la comprensione di questo tema che ha affascinato scrittori di tutti i tempi.
Jean Baudrillard, il noto studioso francese, a proposito dei nostri due protagonisti, afferma: “Se non fossero stati così belli, così seducenti, Ferida e Valenti non sarebbero stati giustiziati. Per la sua insolenza, per la sua perfezione, la bellezza è un crimine inespiabile. L’idolo paga, con la morte violenta, la violenza prestigiosa dell’idolatria che lo circonda”.
Guardiamoli da vicino i componenti di questa tragica coppia del cinema italiano, esaminando anche il contesto storico in cui si svolse il loro dramma. Due percorsi artistici diversi, due solitudini ogni giorno più grandi, ed un incontro, sul set di Un’avventura di Salvator Rosa di Alessandro Blasetti. E’ il 1939, l’industria cinematografica italiana cerca di far rinascere un sistema divistico simile a quello americano, creando aloni magici intorno ad attori dalle forti personalità. Il pubblico richiede in maniera sempre più pressante punti di riferimento e modelli, per cui è giocoforza creare delle figure carismatiche, incarnazioni dei desideri repressi dell’immaginario collettivo.
Osvaldo Valenti è reduce da un periodo trascorso a Berlino, dove ha ricoperto piccoli ruoli in film muti tedeschi. Tornato in Italia, ha sostenuto ruoli che ne esaltano il fisico perfetto, come quello del calciatore in Cinque a zero (1932) di Mario Bonnard. Ma è Alessandro Blasetti a scoprirne il vero “temperamento”, a leggerne lo sguardo febbrile, il sorriso ironico, l’espressione tormentata, tesa in guizzi sardonici che lo rendono particolarmente adatto a ruoli morbosi, di raffinata crudeltà che rasenta il sadismo. A La Contessa di Parma (1937) segue, subito dopo, la sfaccettata interpretazione del duca Guy La Motte in Ettore Fieramosca (1938) sempre di Blasetti; presta poi la sua maschera inquieta alla figura del conte Lamberto in Un’avventura di Salvator Rosa, il film che segna appunto l’incontro “fatale” con la Ferida, attrice di forte temperamento drammatico che si avvia a divenire una delle dive più popolari e celebri del regime fascista.
La Ferida proviene dall’esperienza teatrale, ha fatto parte delle compagnie di Ruggero Ruggeri e Paola Borboni. E’ passata al cinema nel 1935, interpretando ruoli che mettono in evidenza la sua bellezza e la sua sensualità. Insieme i due attori continuano svelarsi al pubblico e a se stessi in film come La bella addormentata (1942) e La locandiera (1943) di Chiarini. E’ un crescendo, il loro, in cui la Ferida raggiunge alte vette interpretative in film come Fari nella nebbia (1942) di Franciolini, considerato l’anticamera del cinema neorealista, che le frutta il premio come migliore attrice dell’anno 1942; e Gelosia di Ferdinando Maria Poggioli, in cui riconferma le sue capacità incarnando le nuove inquietudini del cinema italiano. Contemporanea è l’ascesa di Osvaldo Valenti nell’olimpo dei divi del regime: è il superbo Eriberto di La corona di ferro (1941), il cattivo Giannetto de La cena delle beffe (1942), è il protagonista assoluto nell’ Enrico IV di Giorgio Pastina (1944).
Con la fama crescono le voci popolari che li vogliono sadici, drogati, perversi, torturatori. Tutti i loro atti vengono studiati, scrutati in ogni più piccolo particolare. Valenti ostenta nella vita la divisa della Decima Mas e gioca a fare il fascista. Questo ruolo e quello di affascinante protagonista assoluto, che sullo schermo incarna il Male, si addizionano e si intersecano in una sorta di “destino politico” della seduzione. E lo portano inesorabilmente alla rovina, insieme alla sua amante che condivide questa sua folle interpretazione, priva però di colpe oggettive, di reale complicità e adesione al fascismo. Gianmarco Montesano, che ha indagato a lungo e con cura su questo oscuro episodio giunge, infatti, a questa conclusione: “Ferida e Valenti non erano né fascisti né antifascisti: erano prigionieri di un gioco. E di questo, in alcuni momenti, si può anche morire”. Il loro gioco, condotto e subito, che alla luce dei fatti ora esitiamo a definire “perverso”, si spegne agli occhi del pubblico sullo schermo del loro ultimo film, Un fatto di cronaca (1944) girato a Venezia durante la Repubblica di Salò. Accusati di aver preso parte, con la “banda Koch”, alle torture effettuate nella famosa “Villa Triste”, i due vengono arrestati a Milano. I partigiani esitano parecchio, per sette lunghi giorni, poi li fucilano. Lei ha 31 anni, lui 39: sono ancora giovani i due amanti “diabolici”, vittime di un gioco che, a quanto pare, fu solamente “d’interpretazione”. Troppo poco, in effetti, per rimetterci la vita.