Pubblichiamo un estratto del romanzo di Vincenzo Di Michele “Cefalonia, io e la mia storia”, edito da Il Cerchio sulla tragedia della Divisione Acqui
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Per anni e anni ho mantenuto nascosto il mio segreto, ma già sapevo che un giorno l’avrei dovuto raccontare
In ricordo di Zio Clorindo e di tutti quei ragazzi che non fecero più ritorno dall’isola di Cefalonia
Le famiglie non si arresero e mai persero la speranza per- ché il loro caro non era morto, ma “disperso”. Se questa è stata una storia come tante di quei ragazzi che andarono in guerra, per le famiglie dei soldati che non ritornarono da Cefalonia ci fu qualcosa di diverso. Nessuna di queste osò dirlo a gran voce, ma ciascun fa- miliare si consumò giorno per giorno in un mugugnare di pensieri. Chissà se il suo ultimo respiro è stato proprio davanti a un plotone di esecuzione? Così fu anche per la famiglia del soldato Clorindo Di Giacomo.
CAPITOLO 1
Quando scrivi un libro, scrivi anche la tua storia, che poi è pure quella della tua famiglia. E noi una storia l’avevamo.
Immaginate una famiglia che aveva una disgrazia in casa e ciò nonostante sperava che prima o poi sarebbe arrivata la lieta e sospirata notizia. Immaginate una storia che ha avuto inizio ai primi del Novecento tutta riassunta in un pugno di foto in bianco e nero che ogni tanto guardo. Immaginate, davanti alla mia scrivania, l’ingrandimento di una vecchia fotografia appesa alla parete con zio Clorindo e l’insepara- bile amico Alfonso, entrambi all’epoca appena quindicenni, che posavano gioiosi e sorridenti davanti a un ceppo miliare dell’era fascista.
Immaginate me mentre sto scrivendo. Sono nato a Roma il 23 settembre del 1962, quando questa storia già scorreva da anni e anni nelle vene dei miei familiari. Praticamente senza rendermene conto, mi ritrovai anch’io subito in scena nel pieno della trama di questo romanzo, dove c’erano tanti nomi, cognomi e così via. C’erano molti personaggi nei nostri discorsi familiari. Con il passare del tempo acquisii anche le notizie particolareggiate e imparai il testo a menadito, no alle semplici comparse.
Insomma, un copione studiato e ristudiato per molti anni con repliche giornaliere, festivi compresi, per un susseguirsi di azioni quotidiane che si svolgevano nel contesto della mia fa- miglia. Così per anni, sempre ai comandi del mio senso del dovere familiare, complice una mia ostinata tendenza a non voler mai mollare nulla, continuavo nella mia ricerca e in quel “chi l’ha visto”. Ancora oggi nonostante il trascorrere dei decenni, sembro non avvertire più un segnale di ne corsa o un minimo cenno di cedimento di questa mia storia, anche se quella mattina arrivai trafelato e in ritardo al Tribunale militare di Roma per assistere al processo che aveva come imputato l’ufficiale tedesco Alfred Stork, accusato di “concorso in omicidio continuato in danno di militari italiani prigionieri di guerra” per i crimi- ni commessi a Cefalonia durante la seconda guerra mondiale.
Eppure volevo arrivare con largo anticipo, perché dovevo essere il primo in assoluto. Per fortuna il processo non era ancora iniziato. Dovevo dunque rimediare alla spicciola. Già avevo individuato i due baldi giovincelli: Enzo Franceschini, classe 1922, e Giuseppe Benincasa, classe 1923, entrambi
stanziati nel settembre 1943 a Cefalonia, in forza alla Divi- sione Acqui. Ben rasati e indosso pantaloni, giacca e camicia tenue con cravatta a grosso nodo corredata da maglione di lana con scollo a V, tutt’e due stavano adagiati sulle poltrone antistanti l’aula giudiziale. Pensai tra me: “O li piglio subito o è nita”. Gli anziani di prima mattina sono belli svegli e qualcosa riescono a tirar fuori dai loro ricordi.
Non che dovessero raccontare lunghe storie. Quelle casomai, nell’improbabile eventualità, sarebbero venute dopo. Dovevano solo rispondere “sì” o “no”.
La scena era oramai solita e ripetuta pedissequamente in tutte le modalità e ritualità: io mostravo loro due foto di un ragazzo ventenne: una in uniforme e l’altra – a scanso di equivoci – in abiti civili perché magari gli rimaneva impresso qualche particolare. Quindi, attendevo la loro risposta, che poi era più che scontata: «Non ricordo».
«Mai visto e non lo conosco neanche per nome».
Non vorrei ora interrompere il discorso e mi scuso con tutti voi, ma c’è un lettore che con la mano alzata sta richia- mando la mia attenzione. Diamine! Non ho neanche iniziato! Poteva aspettare almeno che introducessi il discorso. Evidentemente deve dirmi subito qualcosa di importante, anche se penso di aver già capito quello che vuole.
Come dice? A lei non interessano le mie vicende familiari e vuole sapere solo dell’eccidio di Cefalonia?
Suvvia, sia bravo! Vedrà che la mia storia è anche la sua storia. Vuole che le anticipi e sbandieri subito ai quattro venti le colpe del generale Antonio Gandin, che mandò allo sbara- glio dodicimila gli di mamma? Abbia pazienza e ducia in me e vedrà che poi tutto le sarà più comprensibile.
Ebbene, lasci che svolga la mia missione di famiglia e mostri a Benincasa e Franceschini le foto di zio Clorindo, il fratello di mia nonna Maria.
Sia ben chiaro! “Stia tranquillo, presterò attenzione nel non fare troppe domande e soprattutto sarò rapido”. Sono anziane! So bene che queste persone si stancano subito. Se distolgo la loro concentrazione con altre questioni, quando poi sarà il loro turno davanti al giudice ecco che non saranno più lucide; non ascolteranno più le domande e inizieranno nella ripetizione a cantilena dei loro monologhi; metteranno la quarta e via a tutto gas!
Chi li ferma più questi benedetti anziani se non loro stessi che a mezzogiorno staccano la spina perché hanno fame. Di quello che hanno fatto il giorno prima non ricorda- no niente, ma dei fatti che sono successi più di settant’anni or sono ricordano tutto, a una condizione però: il ritornello deve girare sempre nello stesso verso e gli episodi sempre quelli.
Lei però mi deve seguire nella mia storia, altrimenti non capirà. Stia attento, anche se salterò di palo in frasca. Come giusto che sia le riassumerò a seguire i fatti storici che accad- dero in quei giorni, in modo che possa anche lei comprendere ciò che è successo. Si metta comodo e non si preoccupi più di tanto perché potrà interrompermi ogniqualvolta lo riterrà op- portuno. In fondo sono qui per rispondere alle sue domande, anche a quelle che nessuno vorrebbe mai sentirsi porre.