Il primo dato che emerge dalle elezioni presidenziali francesi, e che non è stato sufficientemente sottolineato dalla maggior parte dei media, è che la V Repubblica, nata dalla riforma costituzionale voluta da Charles De Gaulle nel 1958, e perfezionata nel 1962 con l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, è ormai di fatto giunta al capolinea. L’agonia è stata lunga: ebbe inizio nel 2002, con le elezioni presidenziali che videro giungere al ballottaggio Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen.
Si tratta di una crisi di rappresentanza del sistema politico francese molto seria: il maggioritario con doppio turno uninominale non è più in grado di rispecchiare a sufficienza le sensibilità politiche della società francese.
L’estromissione completa dal ballottaggio dei candidati scelti con le primarie dai due schieramenti su cui si è fondata per oltre cinquant’anni l’alternanza democratica in Francia, Repubblicani-gollisti e Partito Socialista, è un fatto che pesa come un macigno sulle istituzioni francesi.
Ognuno a modo suo, tanto Marine Le Pen, quanto Emmanuel Macron, sono due outsider. Essi testimoniano il cambiamento epocale che sta subendo la politica non solo a Parigi, ma in tutta l’Europa.
Sono i punti fermi su cui si è fondata la nostra convivenza civile negli ultimi decenni ad essere messi in discussione da porzioni ormai sempre più ampie di elettorato: Unione Europea, globalizzazione, dicotomia liberismo-socialdemocrazia…
Di fatto ci troviamo in una fase storica rivoluzionaria, che il ceto politico tradizionale non riesce più a governare. Qualcosa di simile a quanto accaduto all’indomani del Primo Conflitto Mondiale.
Al netto delle idee e delle biografie di Marine e Macron, ma analizzando piuttosto gli umori dell’elettorato transalpino, è giusto vedere nella competizione per l’Eliseo a cui assisteremo nelle prossime due settimane uno scontro tra due visioni del mondo contemporaneo, sulle quali è possibile costruire nuove categorie politico-elettorali e culturali: la partita in atto è tra mondialismo ed anti-mondialismo, tra chi crede nelle differenze e chi le vuole annullare, tra radicamento e cosmopolitismo, tra gli sconfitti dalla globalizzazione e chi ne gode i benefici.
L’esito del confronto francese, però, non riuscirà a sancire i reali valori numerici, in termini di consenso, di questa nuova dialettica.
Il candidato Marine non è stato in grado di sfondare: il 21% è un dato di partenza probabilmente insufficiente per riuscire a raccogliere la maggioranza al secondo turno, a meno che la leader del Front National non riesca a condurre una campagna elettorale memorabile.
A complicarle le cose sono i rigurgiti dell’esprit répubblicain che hanno condotto Fillon al rapido endorsement su Macron, subito dopo la sconfitta; i vecchi luoghi comuni antifascisti ancora fortemente presenti tra le fila dell’elettorato di Jean-Luc Mélenchon e lo scarso radicamento nello stato profondo francese di cui gode il Front, nonostante gli immensi sforzi messi in campo da Marine in questi anni per rendere il suo partito politicamente frèquentable. Anche recuperando per intero il 5% del candidato sovranista Nicolas Dupont-Aignan e l’1 messo assieme da Asselineau e Cheminade, oltre al mondo cattolico ed agli elementi anti-sistema presenti tra i sostenitori di Mélenchon, sarà difficile andare oltre uno straordinario 40-45%.
Il vero nodo politico, però, che resterà irrisolto all’ordine del giorno, dopo il voto del 7 maggio, è quello della necessaria transizione ad un nuovo assetto costituzionale ed istituzionale, che porti alla fondazione di una VI Repubblica in grado di garantire la rappresentanza democratica. Dall’esito di questa battaglia, di cui lei dovrà per forza farsi carico, dipenderà non solo il futuro di Marine Le Pen e del Front National, ma verosimilmente della Francia intera.