Questa storia comincia con un punto e un a capo.
Li abbiamo messi, il punto e l’a capo, traversando a piedi, tanto involontariamente quanto abusivamente, la zona rossa di Casali di Ussita, mentre scendevamo dai piani di Pao, con ancora negli occhi lo splendore dolomitico del Bove.
Prima di camminare qui, c’eravamo illusi che tutto potesse tornare come prima abbastanza rapidamente, magari a beneficio esclusivo di noi escursionisti della domenica. Lo abbiamo pensato senza umiltà, forse da egoisti, forse per troppo amore verso queste terre, senza aver provato a capire che da queste parti il paradiso e l’inferno non hanno confini ben tracciati.
Senza aver capito bene la vastità dei problemi. Senza aver capito che qui, sull’Appennino centrale in un’area che va da L’Aquila a Camerino e Tolentino, da Campotosto fino a Norcia e a Cascia, siamo all’anno zero. Stavolta più delle altre. Questo è stato un grande terremoto, come quello del 1703. Le conseguenze della catastrofe sono enormi, ben più ampie e di lunga durata rispetto a ciò che ci appare dall’esterno.
Non sarà come prima. Neanche camminare qui sarà come prima. Ma continueremo a farlo.
Punto e a capo.
I paesi abbandonati
Abbiamo camminato per tre giorni, da soli e poi insieme agli amici del Cammino Francescano della Marca (che stanno andando da Assisi ad Ascoli Piceno), in un continuo susseguirsi di panorami splendidi e paesaggi sfregiati, tra bellezza e angoscia.
Abbiamo rivisto luoghi cari e frequentati come Visso, Ussita, Pieve Torina e Muccia, abbandonati e chiusi come il nostro cuore quando provavamo a attraversarli aggirando le transenne. E poi tante crepe sui muri delle case, delle chiese, delle pievi: quelle maledette X, quasi un segno del demonio, e macerie ancora sulle strade, come se il terremoto ci fosse stato ieri.
Zone rosse e militari
Strade chiuse: non solo la statale della Valnerina, non solo la Norcia-Castelluccio, ma anche quella che collega Visso ad Ussita e Frontignano, dove transitano solo gli autorizzati, polizia, carabinieri, vigili del fuoco e militari che guardano con sospetto (facendo il loro lavoro), perfino gli escursionisti. Perché loro sono lì a proteggere le case abbandonate e vuote e a dirti che non si può passare, neanche camminando.
Ricostruire non basta
Abbandono e ritorno: sono le parole che senti con maggiore frequenza se ti fermi a parlare con chi è rimasto, o con chi vive ai margine del cratere. Il giovane sindaco di Serravalle del Chienti, paese reduce dal terremoto del ‘97, quasi indenne nel terremoto di oggi, ha comunque paura dello spopolamento. Bisogna pensare non solo a ricostruire bene le case – dice Gabriele Santamarianova – ma anche a dare delle prospettive a chi torna.
Punto di snodo
Dopo decenni di lento declino delle aree montane d’Appennino, dopo qualche tentativo di riconversione e attualizzazione (anche riuscito) dell’economia montana, adesso siamo davvero al punto nodale. O si ricostruisce cambiando le prospettive, mettendo a fuoco una visione complessiva, oppure si desertifica tutto e per sempre.
Una nuova idea dell’abitare in montagna
Gianluca è antropologo. Dice che tra gli anziani trasferiti sulla costa dai paesi del terremoto c’è stata in questi mesi una mortalità molto superiore alla media.
Un architetto di Legambiente sottolinea che “una condizione di normalità qui non potrà tornare prima di 10-15 anni. Ma tra 10-15 anni circa il 50% della popolazione che risiedeva nell’area appenninica tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo sarà morta o estremamente invecchiata”. Di giovani già ce n’erano pochi e quelli che sono andati via per il terremoto non è detto che ritornino…
E allora lo ripete anche lui: “Non si deve solo pensare a ricostruire, magari in maniera diversa da prima. E’ l’intero modello che deve essere riorganizzato, rielaborato. Occorre progettare una nuova idea dell’abitare in montagna. Un’idea attrattiva”.
Verso dove dirigere gli investimenti? Giovani, start-up nei settori dell’agro-alimentare di qualità alta, della new economy, del commercio on line, ma a fronte di una garanzia di permanenza nel luogo ultradecennale.
Servono le infrastrutture, serve la viabilità, la banda larga anche nei borghi montani, finanziamenti per la produzione di energia alternativa anche fuori rete. Serve far capire che investimenti del genere possono portare frutti sociali ed economici nel medio-lungo periodo. E non solo per la popolazione locale.
Il modello siberiano di Maurizio
Tra una tappa e l’altra del Cammino della Marca, Maurizio lancia sornione l’idea di un modello siberiano, magari senza deportazioni. Come hanno fatto a mandare la gente a lavorare in Siberia? Sgravi fiscali e stipendi più alti. Così dovrebbero fare per ripopolare l’Appennino.
Luca aggiunge il modello Sim City. Ricordate il gioco elettronico con l’obiettivo di costruire una città partendo dal nulla? Lo schema era semplice: per attrarre nuovi abitanti bisognava innanzitutto investire in servizi: ospedali e scuole.
Già, ma negli ultimi decenni i tagli hanno riguardato proprio i servizi nelle aree marginali. Chi verrebbe a vivere qui sapendo che ospedali e scuole sono a centinaia di chilometri di distanza?
Occorrono quindi scelte politiche lungimiranti per riportare vecchi e nuovi abitanti su queste montagne. Chi sarà in grado di farle? Chi spingerà, dal basso, in questa direzione?
L’Appennino è di chi lo ama
Perché poi – come sottolinea Gianluca – l’Appennino non è solo di chi ci è nato. L’Appennino è di tutti coloro che lo amano e lo rispettano. Di tutti coloro che vorrebbero viverlo, se ce ne fossero le condizioni, come un’opportunità, non solo economica, ma anche valoriale, per ritrovare cioè quei valori che solo il contatto con la natura e la bellezza ti possono dare.
Il terremoto della signora Ida
Passiamo vicino a Fiordimonte, dove la signora Ida ci racconta il suo terremoto vissuto tra fornelli e monelli, tra mura di casa che si muovevano, roulotte sommerse dalla neve, vigili del fuoco che con la turbina che liberano il passaggio per la stalla per dar da mangiare alle pecore. E la faglia dov’è? “Guarda, lo vedi quel campo laggiù, vicino a quello mio? Ecco è lì che fa lu terremoto!”. Però lei non se ne va e capa la cicoria. Gente tosta e fatalista. Anche se l’altra notte il gelo fuori stagione le ha bruciato le viti e i fichi. “Quest’anno non ce famo manca’ niente!”.
Il cammino non si ferma
Noi continuiamo a camminare. Anche se quando entriamo a Muccia il paese attraversato con il Cammino della Marca lo scorso anno proprio in questi stessi giorni, non c’è più. O meglio: è chiuso e abbandonato. Passiamo silenziosi, senza scattare foto, e proseguiamo verso Pievebovigliana dove il Comune è nel palazzetto dello sport e gli impiegati lavorano in mezzo agli scatoloni, con i portatili, fino a tarda ora per sbrigare le pratiche del terremoto. Qui lasciamo Maurizio e gli amici che scendono verso Ascoli, città di Sant’Emidio, protettore dai terremoti.
Noi invece torneremo sui Sibillini, a cercare sentieri liberi, nell’auspicio che l’ente Parco faccia il suo dovere di comunicare non tanto dove non si può passare, ma dove si può andare.
E aiuteremo, per quanto ci è possibile, coloro che come Andrea e Roberto credono che l’escursionismo nell’area del parco sia ancora una risorsa e che lo sarà anche in futuro, magari con percorsi nuovi, nuovi sentieri, nuova ricettività, non più rifugi, ma yurte, tende e asini.
Piccoli segnali, dentro una catastrofe di dimensioni enormi. Piccoli messaggi, come dice Paolo Rumiz, per far nascere un canto nuovo d’Appennino (possibilmente corale). Per ripensare il suo sviluppo, nell’anno zero, forse nel meridiano zero, che va attraversato. Camminando insieme a tutti coloro che amano queste terre alte, senza confine di regione, di comune, di campanile.