È cronaca recente. L’89ª edizione della cerimonia degli Oscar si è infatti svolta al Dolby Theatre di Los Angeles il 26 febbraio 2017. L’ultima Notte degli Oscar non sarà dimenticata presto. In occasione del 50mo anniversario del film Bonnie and Clyde, i protagonisti di quella fortunata pellicola, Warren Beatty e Faye Dunaway, erano stati scelti per annunciare e consegnare l’Oscar alla migliore realizzazione cinematografica. Il biglietto della busta scarlatta, vista da tutto il mondo, lo ha attribuito, per un banale errore, pare, a La La Land di Damien Chazelle, invece che al vincitore reale, Moonlight di Barry Jenkins. Film “obamiano”, come nessun altro, quasi a far da contraltare alla vittoria di Trump – alla Casa Bianca da poco più di un mese, odiatissimo da quasi tutto il mondo di Hollywood – una storia con regista ed attori afroamericani (che, tra l’altro, pare, piacciano poco ai neri). Paradosso per un liberal come Beatty!
Un “mostro sacro” con una lunga carriera di attore, sin da “Splendore nell’erba”, atto d’accusa di Elia Kazan (1961) contro l’etica sessuale conformista dell’epoca, poi sagace produttore, regista, sceneggiatore. Nel 1967 giunge per il bel Warren il successo planetario di Gangster Story ( Bonnie and Clyde), il film diretto da Arthur Penn, che segna il passaggio dalla Nouvelle Vague alla New Hollywood, salda il cinema americano alla realtà storica contemporanea – doveva essere diretto, in un primo momento, da Godard o da Truffaut – e che rappresenta un caposaldo assoluto del genere gangster, raccontando le gesta, la fuga e la fine della mitica coppia di fuorilegge, Bonnie Parker e Clyde Barrow (sullo schermo Faye Dunaway e Warren Beatty), nell’America della “Great Depression” degli anni ’30.
Nel 1971 è Robert Altman a fargli interpretare, in “I compari”, il ruolo di un avventuriero spaccone, gestore insieme ad una ruvida Julie Christie, di una casa di piacere, che devono difendere dalle mire di una compagnia mineraria. Il film, prendendo a pretesto una vicenda amorosa di ambiente squallido e dal tragico epilogo, esprime una severa critica all’utopia, tutta americana, della libera iniziativa individualistica.
Seguono altri successi: “Shampoo”, del 1975, diretto da Hal Ashby, che Beatty interpreta nuovamente con Julie Christie, nella parte di un prestante parrucchiere per signora, che fa la messa in piega alle clienti e spesso va a letto con loro. Una feroce satira di costume, ma anche specchio dell’immoralità della upper class agiata (significativo il momento dell’elezione di Nixon, assurto a modello di corruzione). Dopo altri film impegnati o leggeri, commedie, ruoli scanzonati e curiosi, sempre accompagnato da famose stars – come lo sarà poi, nel 1990, il fumettistico “Dick Tracy” – tra successi e qualche fiasco, è la volta della consacrazione con “Reds” del 1981, una rievocazione di un’epoca che sempre ha turbato la coscienza americana, anche quando, all’epoca di Franklin D. Roosevelt, USA ed URSS si troveranno alleate contro la Germania. “Reds” riunisce felicemente il talento multiforme di Warren Beatty, le sue doti interpretative, la passione politica.
Il liberal Beatty, il “playboy comunista”, per la verità mi è sempre parso un po’ come quegli aristocratici britannici, educati ad Eton, poi a Cambridge od Oxford, che per snobismo, più che per un sincero afflato utopistico alla ricerca di un sogno egualitario, bello ed impossibile, scelsero di diventare collaboratori e spie del sovietico KGB; di quell’URSS che era lontanissima dal loro mondo classista, tradizionalista, pieno di pregiudizi di sudditi d’Oltremanica. Più vicini, semmai, ai gusti borghesi del leader bolscevico, emotivo, calvo, piccolo di statura, che al suo famoso berretto da operaio, ai suoi discorsi incendiari ed atti di governo crudeli e radicali. Peraltro l’attore è un ottimo professionista.
L’ottantenne Warren Beatty, nato a Richmond, Virginia, il 30 marzo 1937, come Henry Warren Beaty, fratello minore di Shirley MacLaine, lo splendido, irresistibile seduttore di Hollywood – accostato alle più affascinanti stars dello spettacolo e non solo, uno dei più popolari talenti della “grande fabbrica dei sogni” – oggi porta benissimo i suoi anni e si mantiene in piena attività, dopo una lunga carriera di attore, regista e produttore, seppur mai molto amato nell’ambiente. “L’eccezione alla regola” (Rules Don’t Apply) è un film del 2016 da lui scritto, diretto ed interpretato.
Egli ha contribuito assai a far conoscere la “Rivoluzione d’Ottobre” alla mia generazione, sia pure nella sua versione trionfalistica e catartica, e a milioni di occidentali, forse più delle migliaia di testi di propaganda, storia, documentari dedicati al più importante accadimento del XX secolo. Nel 1981 Beatty si gettò nell’avventura di “Reds” per rievocare la figura di John Reed, l’idealista americano che fu testimone entusiasta della Rivoluzione d’Ottobre, all’ombra di Lenin. Al fianco di Warren Beatty (e Jack Nicholson), c’era Diane Keaton, una delle donne con le quali egli ha diviso la vita e l’arte.
Così come Leslie Caron, Julie Christie, Madonna, Joan Collins, Natalie Wood, Liv Ullmann, Brigitte Bardot, Elle MacPherson, Goldie Hawn, Candice Bergen, Cher, Britt Ekland, Annette Bening. Il 1991 sarà un anno importante per Warren Beatty e per la sua vita privata: è scritturato da Barry Levinson per il ruolo di protagonista nel film “Bugsy”, che narra il sogno del mafioso ebreo Ben Siegel di costruire nel deserto del Nevada un grandioso centro per il gioco d’azzardo, il nucleo dell’odierna Las Vegas. Sul set Beatty conosce Annette Bening, alla quale è stata affidata la parte dell’attrice Virginia Hill, detta “Flamingo”, che Bugsy amò con passione e che fu infine causa della sua morte. L’amore di cellulloide si trasforma però in amore vero e l’incallito rubacuori alfine mette su famiglia. Annette è sua moglie ancora oggi e madre dei suoi quattro figli.
Quando “Reds” esce nelle sale, il tempo della maccartista “caccia alle streghe” è finito da decenni ed il regista/attore/produttore/co-sceneggiatore si gode così una tranquilla e diffusa fama, con l’etichetta giornalistica di “comunista di Hollywood”: passione politica che, in fondo, mai gli è appartenuta; al massimo la militanza nel settore “progressista” del Partito Democratico, l’amicizia personale con i fratelli Kennedy.
In piena era della “conservazione reaganiana”, Beatty dedica oltre tre ore di film al giornalista John Reed, per descrivere cinque anni della sua vita e quella di Louise Bryant, i quali abbandonarono la vita bohemienne di New York per partecipare alla Rivoluzione d’Ottobre. Riportando in auge il quasi dimenticato autore de ‘I dieci giorni che sconvolsero il mondo’, Beatty, che è anche il principale attore del film, dimostra grandi doti di regista, sapendo raccontare la vita di una coppia strettamente legata alla vita pubblica eppure intensamente passionale. Indimenticabile nelle scene della Rivoluzione, la pellicola consegna a Beatty l’Oscar come miglior regista (scelta in qualche modo coraggiosa ed imprevedibile dell’Academy) e la consacrazione di uno dei più completi artisti della storia del cinema hollywoodiano.
La leggendaria vita artistica di Beatty potrebbe forse riassumersi, è stato scritto, in “volevo essere un genio”, come Orson Welles, l’unico altro cineasta americano ad essere stato candidato all’Oscar per il miglior film, la regia, la produzione e l’interpretazione. Ma diversamente dal regista di “Quarto potere”, il suo “Reds” gli regalò “solo” la statuetta come miglior regista! Warren Beatty ha, in ogni caso, caratterizzato esemplarmente un’epoca.
John Reed, giornalista e militante comunista statunitense, è conosciuto in particolare per la sua narrazione dei giorni della Rivoluzione d’Ottobre nel libro Ten Days That Shook the World (New York, 1919). Egli nacque, come più tardi il suo ammiratore Warren Beatty, da una famiglia benestante, di Portland, Oregon. Compie i suoi studi ad Harvard. Dopo la laurea, Reed viaggia per alcuni mesi in Europa. Al suo ritorno in America si stabilisce a New York, dove inizia a collaborare a vari giornali. Entra in contatto con gli “Industrial Workers of the World”, un’organizzazione operaia internazionalista ed è partecipe testimone delle lotte dei lavoratori. Reed partecipa allo sciopero dei setifici di Paterson, nel 1913. Viene pure arrestato e detenuto per alcuni giorni. L’anno successivo viaggia in Messico come corrispondente: per quattro mesi segue l’esercito di Pancho Villa. Il volume Il Messico insorge (1914) è un’appassionata testimonianza della rivoluzione messicana. Subito dopo lo scoppio della Guerra Mondiale, Reed parte per l’Europa come corrispondente di Metropolitan Magazine e The Masses, scrivendo reportages dai fronti di guerra. Nel settembre del 1914 così conclude l’articolo The traders’ war: “Noi socialisti dobbiamo sperare che da questo orrore di spargimento di sangue e terribile distruzione scaturiranno cambiamenti sociali di grande portata ed un enorme passo in avanti verso un traguardo di pace fra gli uomini. Ma non dobbiamo farci ingannare dal Liberalismo che avanza nella Guerra Santa contro la Tirannia. Questa non è la nostra guerra”. All’inizio del 1917 Reed sposa la giornalista Louise Bryant. Nell’autunno parte con la moglie per Pietrogrado, per osservare da vicino gli eventi che avevano portato alla caduta dello zarismo ed alla nascita dei Soviet. È testimone degli avvenimenti rivoluzionari: il suo libro I dieci giorni che sconvolsero il mondo è una delle più conosciute e seducenti cronache apologetiche della Rivoluzione Russa. Lenin raccomandò la sua lettura agli operai di tutto il mondo. Nel 1918 rientra negli USA, dove partecipa alla fondazione del Communist Labor Party, dichiarato subito illegale dalle autorità. L’anno successivo ritorna a Mosca e partecipa al secondo Congresso dell’Internazionale Comunista ed al Congresso dei Popoli Orientali a Baku. Al ritorno da quel viaggio muore di tifo a Mosca, il 17 ottobre 1920, all’età di soli 32 anni. È sepolto con grandi onori sotto le mura del Cremlino.
La tragedia del “comunismo reale” non emerge, ovviamente, né dalle pagine di Reed, né dalle immagini di Beatty. Come noto, la Rivoluzione d’Ottobre è la fase finale e decisiva della Rivoluzione iniziata in Russia nel febbraio 1917 (secondo il calendario giuliano), che portò alla caduta dell’Impero degli zar. Dopo alcuni mesi durante i quali la Russia fu sconvolta da conflitti tra i partiti politici e dalla crescente disgregazione militare ed economica, il partito bolscevico, guidato da Lenin e Lev Trockij, decise l’insurrezione contro il debole Governo provvisorio di Aleksandr Kerenskij per assumere tutto il potere in nome dei Soviet degli operai e dei contadini.
L’insurrezione avvenne tra il 6 e l’8 novembre 1917 a Pietrogrado; i bolscevichi formarono un governo rivoluzionario presieduto da Lenin e riuscirono ad estendere il loro potere su gran parte dei territori del vecchio Impero zarista. La reazione armata delle forze controrivoluzionarie, e l’intervento delle Potenze straniere, provocò l’inizio di una cruenta guerra civile, che si concluse con la vittoria bolscevica nel 1922.
Fra l’autunno del 1901 ed il febbraio 1902, Lenin aveva delineato in “Che fare?” la sua teoria dell’organizzazione e strategia del partito rivoluzionario del proletariato, in modo sistematico. Un testo-chiave con la teorizzazione e le premesse dei crimini del comunismo e delle sue “avanguardie”, con l’idea del primato della politica e quella del ruolo del partito come depositario della “coscienza rivoluzionaria”, catalizzatore delle energie rivoluzionarie.
Per Lenin, la classe operaia non sarebbe stata in grado di raggiungere una vera “coscienza rivoluzionaria” e si sarebbe esaurita in manifestazioni di spontaneismo destinate a rafforzare il regime borghese. Il compito degli autentici rivoluzionari era quello di combattere lo spontaneismo. Non potendo esistere coscienza rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria il partito, organizzato e gerarchizzato, articolato in una rete di comitati locali controllati dagli organi centrali, doveva assumere le caratteristiche di un esercito permanente composto da professionisti della rivoluzione. Il partito rigidamente selezionato ed addestrato, distinto dal complesso dei lavoratori costituisce per Lenin l’avanguardia del proletariato e, composto di persone devote e pronte al sacrificio, è in grado di giudicare ciò che è utile o conveniente per il bene di tutti i lavoratori ed ha il dovere, altresì, di educarli e guidarli secondo i princìpi del marxismo. In questa visione, era già prefigurato l’esito dittatoriale del comunismo. Lenin aveva elaborato il progetto di una dittatura totalitaria fondata sull’idea di una rivoluzione permanente che si sviluppa all’insegna di una epurazione continua in nome della purezza ideologica, che trova la propria sublimazione nel terrore istituzionalizzato,
Come già fu nella Francia giacobina del 1793, il “Terrore” divenne una metodologia di governo. Per Trockij e Lenin la rivoluzione non transige con nessuna forma di dominazione di classe, non si limita alla fase democratica, ma passa a drastiche misure socialiste ed alla guerra aperta contro la reazione esterna, una rivoluzione di cui ogni fase è contenuta in germe nella fase precedente, una rivoluzione che si arresterà solo con la totale liquidazione della società suddivisa in classi. Successivamente, anche Mao, preoccupato per l’involuzione autoritaria e burocrativa del comunismo cinese, teorizzerà una “rivoluzione permanente” per l’affermazione del socialismo marxista. E furono gli orrori della “Rivoluzione Culturale”, anticipo di altri genocidi indocinesi.
In Stato e Rivoluzione: la dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917), scritto alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, Lenin sosteneva che la liberazione della “classe oppressa” sarebbe stata impossibile “senza una rivoluzione violenta” e “senza la distruzione dell’apparato di potere statale creato dalla classe dominante”. Il marxismo-leninismo, nella versione di Lenin, accredita l’utopia salvifica della liberazione dell’uomo dallo sfruttamento capitalistico e quella, altrettanto chimerica, della creazione di un “paradiso in terra”, da costruirsi prescindendo dalle garanzie proprie dello “Stato di diritto”, nel presupposto che l’emancipazione comporti di per sé stessa l’esercizio finalmente sovrano dei diritti politici da parte dei cittadini, secondo uno schema che riprendeva la tradizione politico-intellettuale del giacobinismo francese. Per la quale lo “Stato Rivoluzionario” era “il garante dell’uguaglianza e dunque della libertà”. Le vicende storiche del comunismo, quale è andato sviluppandosi a partire dalla realizzazione delle idee di Lenin e dalla presa di potere dei bolscevichi in Russia, si risolvono nella storia di una utopia salvífica, lastricata da milioni di cadaveri, punteggiata dalla costruzione di “universi concentrazionari” e costellata, nel suo realizzarsi, da grandi azioni criminali. È una storia di illusioni folli, di sogni palingenetici infranti sull’altare di una impossibile discontinuità – come ha scritto François Furet in Il passato di una illusione. L’idea comunista nel XX secolo (1995) – fra le posizioni teoriche ed i comportamenti di Lenin, da una parte, e quelli dei suoi successori. In questa ottica, i cosiddetti “crimini di Stalin” denunciati dal XX congresso del Pcus (1956) non sono una degenerazione dovuta al culto della personalità, ma, al contrario, l’esito naturale dell’intransigentismo rivoluzionario di Lenin; il marxismo in versione leninista che ha dato origine ad una “religione secolare”, influenzando la storia mondiale. Dal 1917 la storia è, infatti, diventata così l’ha definita Augusto Del Noce, il massimo filosofo cattolico del ‘900, una “storia filosofica”, nel senso che da quel momento in poi tutti gli attori politici internazionali hanno dovuto confrontarsi, per accettarla o respingerla, con una filosofia della prassi, il marxismo-leninismo appunto, che si era incarnata in istituzioni politiche. Con quel che ne è conseguito, soprattutto in termini di rigida, dogmatica “ideologizzazione della storia”.
(da Francesco Perfetti, Che fare? in: www.ilgiornale.it/news/spettacoli/che-fare-si-chiese-lenin-e-fece-strage-1324797.html).
Lenin per anni fu lacerato tra la prefigurazione di una tendenza libertaria, insita nell’anima russa, ed una tendenza autoritaria ereditata dal marxismo tedesco, di matrice hegeliana. Egli ammirava il capitalismo di Stato prussiano ed i monopoli statali francesi. Definiva lo Stato come transitorio, non osando però limitare tale periodo di “dittatura del proletariato” – concetto espresso da Karl Marx e Friedrich Engels per la prima volta nel 1852 – particolarmente, ossessivamente amato sino alla sua morte, all’inizio del 1924.
Su quelle lontane speranze e su quei bagni di sangue e sofferenze, sulle passioni e gli odî, il tempo pare aver depositato una benefica cenere già densa. Per molti versi quel mondo monolitico ed assurdo, quella disumana prigione comunista, regno della corruzione e dell’arbitrio, è terminato del 1989 con la Caduta el Muro di Berlino. Io, che appartengo alla schiera degli ammiratori di Solženicyn e di quella fiera generazione di dissidenti che sfidavano il gulag ogni giorno, mi sembra opportuno ricordarlo, nell’anno del suo centenario, auspicando che mai più rinasca una assurda tentazione utopistica, simile a quella generata dalla Rivoluzione Russa d’Ottobre.
Tutto sommato, molto meglio rendere tributo al versatile, elegante tombeur de femmes Warren Beatty! Forse snob, ma infinitamente più innocuo…
Montevideo, 20 aprile 2017
*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay