Caro Enzo,
ci hai lasciato da quattro anni, proprio un 29 marzo. E ieri camminavo per Bologna all’imbrunire con l’impermeabile e, neanche a farlo apposta, un paio di scarpe del tennis.
Le mie passeggiate serali sono sempre un po’ tristi, perché l’incedere solitario, mentre si fa buio, favorisce la malinconia, la nostalgia per l’infanzia e i cari che non ci sono più, per i vent’anni di lotta e di governo assieme alle loro speranze tradite. Ho pensato allora a te, nel giorno della tua scomparsa, agli eroi tristi delle tue canzoni. Il tuo, il nostro (se lo posso dire, visto che sono molto più giovane), era il tempo un cui i cantautori cantavano le gesta di puttane, barboni e operai distrutti da una vita di lavoro. E, attraversando il crescentone di Piazza Grande, ho pensato anche che era il tempo in cui i ladri le puttane chiamavano un “figlio della colpa” Gesù bambino.
Erano definiti emarginati allora, ma quella varia umanità descritta era tuttavia un modo per cantare una vita non marginale, non di minoranze ribelli, ma di una massa di operai, di subalterni, di piccoli impiegati intristiti dalla routine quotidiana, che però ancora resisteva all’incedere dei modelli di vita borghese, grazie alla sua mentalità contadina trasferita nella città industriale. Per opera dei partiti popolari di massa, si esplicava nelle città ancora quella dimensione popolare, legata alla terra, grazie al legame tra fabbriche, quartiere e partito che rappresentava una sorta di paese contadino nel cuore della modernità industriale.
Ecco, la marginalità non significava essere minoranza, non era un esercizio di ribellismo anarchico per pochi bohemienne, né una sorta di dissidenza da tutto e da tutti. La marginalità era la consapevolezza di vivere un margine, di essere all’interno di grandi isole rurali, in cui abitavano masse di operai e subalterni, all’interno della città. E allora i ladri, le puttane, i barboni o gli ubriaconi non erano altro che le maschere, i simboli di una massa che resisteva con i propri valori contadini nel cuore delle megalopoli moderne; erano i portavoce degli operai tristi e malinconici che nei bar, nelle sezioni e nelle case del popolo potevano affermare ancora un’umanità senza tempo, di una volta, a contatto con prostitute e barboni che, in fondo, simboleggiavano ancora gli spiriti liberi e strani delle campagne. Non era un’umanità ai margini, era la maggioranza della città che però non era ancora diventata del tutto borghese e si aggrappava ai propri eroi da taverna per dichiarare di non essere stata ancora vinta. Erano gli abitanti del margine, del confine, di un’isola ancora rurale, ma non minoranza ribelle, bensì maggioranza compatta, non troppo rumorosa certo, un poco triste, ma orgogliosa di essere ancora contadina.
Saranno i figli a voler essere minoranza ribelle e, non a caso, nel giro di pochi anni, ridotta a ceto intellettuale della borghesia postmoderna dominante.
Oggi, non ci sono più gli emarginati, perché non ci sono più margini, non ci sono più differenze tra subalterni e borghesi. I barboni non sono più eroi, né simboli della resistenza operaio/contadina nel cuore della città, ma degli solo espulsi dalla competizione (avversati dagli operai come dai loro padroni). E gli ubriaconi non esistono più. Ci sono solo gli alcolizzati, dai 15 anni in su, dipendenti dall’alcol e per niente marginali ma, anzi, proprio in virtù della loro dipendenza, perfettamente inseriti nel tempo attuale del narcisismo e della perversione generalizzata a cui siamo tutti incitati in nome della libertà. E le puttane sono diventate escort e non te le ritrovi certo al bar di periferia prima o dopo il turno in strada. Stanno nelle case e nei ritrovi dei ricchi e sono, perlopiù, a loro volta, ricche. Per strada ci sono invece le schiave del sesso, quelle deportate dai nuovi mercanti di uomini e donne, per far divertire una massa di giovani e meno giovani che rispettano, come tutti i dipendenti dall’alcol e dalle droghe, il comandamento di godere senza freni per essere liberi, liberi tramite il consumo.
Beh, sai, caro Enzo, oggi la libertà non è più la capacità di essere isola non borghese nel cuore della città industriale. La libertà – ci dicono – è abbandonare il vecchio mondo con quei suoi codici tradizionali e un poco trasformati e reinventati per la città, è abbracciare il credo della perversione, del branco consumista, del godimento di oggetti e di corpi. Abbiamo così perso la capacità di fermarci a guardare la luna o una stella, a pensare alla vecchia madre che lavava i panni, o al padre sognatore ma inebetito dalla macchina in fabbrica con gli occhi però ancora luccicanti. Non siamo più in grado di intristirci per capire meglio il mondo e resistere, resistere al comando borghese che ci vuole tutti uguali (e ci fa credere per questo di essere di sinistra).
Non ci sono ormai neppure più i bar, ma solo locali per aperitivi pieni di ragazzini urlanti o di cinquantenni che fanno finta di avere l’età dei figli. E non ci si ubriaca più a barbera e champagne, con quelle sbornie tristi che ti facevano capire il mondo, la vita e l’amore nelle notti insonni. Si trangugiano shot di superalcolici per non capire, per non pensare, e credere di essere liberi, felici e sempre giovani.
Caro Enzo, eravamo più felici da tristi. Allora sì che sapevamo ridere!