A ventisei anni dalla scomparsa, esce “Dino Viola, la prigionia del Sogno”, la prima biografia autorizzata del presidente più amato dai romanisti di ogni epoca. Fu lui che trasformò una Rometta stanca e bolsa nella Maggica che ha sedotto i cuori di tantissimi tifosi di ogni età, che è ancora oggi una leggenda (quasi) inarrivabile. Edito per Ultrasport, lo ha scritto Manuel Fondato, giornalista de Il Tempo e tifoso giallorosso.
Come nasce l’idea di scrivere il racconto della vita di Dino Viola?
Sono cresciuto con la Roma di Dino Viola, in quell’età che a mio avviso segna il punto più alto della passione che si può nutrire verso il calcio. Quella passione pura, filtrata dagli occhi da bambino, che, purtroppo, crescendo si attenua molto. Viola andava raccontato per quello che è stato e che ha rappresentato. Sono stato fortunato e onorato di essere il primo a pubblicare una sua biografia, mi auguro che seguano altri libri su quest’uomo straordinario.
Come trasformò la Rometta nella corazzata giallorossa capace di trionfare in Italia e (per un pelo) in Europa?
Con meticolosa programmazione, competenza e intelligenza sopraffina. Grazie a questo cocktail sopperì la sproporzione di risorse economiche che esisteva tra Roma e Juventus. Lui non aveva la Fiat alle spalle eppure i risultati da lui raggiunti nei primi 5 anni di presidenza furono quasi al livello di Boniperti, che aveva sei campioni del mondo 1982più Bettega, Platini e Boniek. La differenza è tutta nel gol di Turone e negli sfortunatissimi rigori di Roma-Liverpool.
L’epopea di Viola alla Roma in quante tappe potrebbe riassumersi?
I primi cinque anni furono straordinari con uno scudetto, tre Coppe Italia, una finale di Coppa dei Campioni , due secondi e un terzo posto in campionato. Dopo la finale con il Liverpool inevitabilmente iniziò un leggero declino mitigato da almeno un paio di rabbiosi colpi di coda: il secondo posto di Eriksson, vanificato dall’incredibile sconfitta contro il Lecce già retrocesso e un buon terzo posto ottenuto dal Liedholm di ritorno dietro il Milan di Sacchi e il Napoli di Maradona. Furono queste le squadre che nella seconda metà degli anni ottanta interruppero il dominio di Roma e Juventus scalzandole dai vertici della classifica. Nonostante questo Viola ogni anno fece di tutto per costruire una Roma competitiva anche a costo di dolorose cessioni. Se avesse potuto avere uno stadio di proprietà le cose sarebbero andate diversamente.
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Perché oggi resta il più amato dei presidenti romanisti? Cosa ha avuto lui, magari anche rispetto agli altri dirigenti giallorossi, per restare così a lungo nel cuore dei tifosi?
Lui era innanzitutto un romanista viscerale che viveva e pensava h24 alla sua creatura. Amava e proteggeva la Roma come una figlia. I tifosi, che pure lo contestarono molto duramente negli ultimi anni, perché ormai diventati oltremodo esigenti dopo un ciclo di vittorie mai vissuto nella storia della società, gli riconobbero sempre passione e buona fede. Anche quando sbagliava nessuno si permise mai di pensare che non lo facesse per il bene della squadra. Quando prese Manfredonia, ad esempio, ragionò in quest’ottica, non desiderava certo spaccare la curva sud.
Il tratto della signorilità caratterizzò Viola, così come il suo essere impermeabile alle “rivolte” dei tifosi. Quanto è cambiato da allora a oggi il calcio italiano?
Il calcio in generale è totalmente un’altra cosa ovunque. I presidente mecenati, che spengono la luce degli uffici come faceva Viola, non esistono più, non potrebbero sopravvivere da soli all’aumento esponenziale e incontrollato dei costi di gestione. Non ce l’ha fatta nemmeno Massimo Moratti che è stato l’ultimo esempio di patron “all’antica”. Tuttavia i tifosi non si rassegnano e ancora invocano presidenti alla Dino Viola, che striglia i propri giocatori dopo una sconfitta o li carica negli spogliatoi a inizio partita. Loro vorrebbero sempre l’occhio del padrone che ingrassa il cavallo.
Sicuramente di molti dei grandi uomini di calcio di quell’epoca si è perso lo stampino.