
Vent’anni fa, proprio in questi giorni, Allen Ginsberg si stava disincarnando nella sua casa di New York. Steso a letto e morente accoglieva amiche e amici che a turno lo salutavano. A Patti Smith toccò mezz’ora, che fu consacrata alla lettura di brani dai Cantos di Ezra Pound.
Possiamo fermare quest’immagine, quel momento della storia. Che coincideva con l’avvicinamento di Ginsberg al mondo senza storia e senza tempo. In quel momento ci pare si manifesti in una particolare gloria tutto il meglio dell’America bianca. Bianca ma contaminata, mischiata, imbastardita proprio perché americana.
In una stanza, una donna matura, un anziano poeta morente e l’opera di Pound, disincarnatosi a sua volta più di vent’anni prima. Non poche anime ma una grande folla. Attorno a Pound si affollano altri momenti ed altri nomi, Hemingway, T. S. Eliot per primi. Lui è portatore della pretesa modernista, ben più ambiziosa a ben vedere rispetto a quelle roboanti delle avanguardie storiche: trovare un equilibrio fra sperimentalismo e tradizione. La tradizione per Pound è fatta di Grecia omerica, di Medioevo neoplatonico e francescano, di Confucianesimo, di spirito avventuroso dei primi pionieri nel Nuovo Mondo. Tutte cose che affiorano nelle parole lette dalla Smith e udite da Ginsberg.
Attorno a Ginsberg ci sono gli amici della Beat Generation, disincarnati o ancora sulla terra (William Burroughs per pochi mesi, laggiù nel Kansas). C’è ovviamente Jack Kerouac, il primo ad andarsene, nel 1969. Il martire che Pasolini avrebbe voluto nel ruolo di Cristo nel suo film sul vangelo secondo Matteo. Da qualche parte in giro a cantare e suonare sarà Bob Dylan, ma è da anni amico di Ginsberg e dunque c’è anche lui, al capezzale del poeta, accanto a Patti che legge. E se c’è Dylan, c’è tutto il rock ‘n’ roll, il folk, il blues, anche i Beatles e gli Stones, fino al punk dei Clash e agli U2. C’è pure Kurt Cobain, con Lead Belly e il bebop di Charlie Parker.
E in carne, ossa, voce e spirito c’è Patti, poetessa e rockstar, che tutti i nomi fatti li ha frequentati. Lei è più che degna manifestazione di questa tradizione Usa, pronta a recepire il meglio dell’Europa, dell’Oriente, dell’Africa che è culla dell’uomo come del blues.
Questo omaggio alla “sacerdotessa del punk” e ai suoi maestri viene suggerito da Patti Smith. Tra Rimbaud e San Francesco curato da Susanna Dolci e Angelo Senzacqua per le edizioni del Circolo Proudhon. Il volume è diviso in due sezioni: a una ispirata introduzione della Dolci, segue un’antologia di testi della Smith e soprattutto dei suoi ispiratori, dei nomi, delle presenze che per prime le si affollano intorno. Il primo è Rimbaud, caro anche ai Beat e a Dylan, poi il suo amico Verlaine e il loro padre comune Baudelaire. Segue William Blake, il Bardo, il Profeta delle porte della percezione spalancate. Ginsberg diceva di aver ricevuto a ventiduanni il segreto sul “potere della poesia” dalla voce stessa di Blake. Il passaggio a Pasolini è brusco solo per chi non conosce bene questi poeti né conosce bene la Smith. E poi, appunto, Pound, Ginsberg, Keroauc, Burroughs. Chiude il libro, per nulla bruscamente, per capirci, San Francesco d’Assisi con il Cantico della Creature e con il Testamento. Il cerchio si chiude proprio nella religiosità della Smith, nella vita del santo che fu anche poeta e menestrello folk, un po’ beat anche se l’affermarlo sembra brusco.
Nel 1926 Pound scrisse Cantico del Sole e in quei versi diceva di aver il sonno turbato dal pensiero di come sarebbe l’America se “i classici” circolassero di più. Patti Smith è una risposta precisa, meravigliosa; Pound e Ginsberg possono dormire tranquilli nei loro paradisi.