E’ arrivato il momento di parlar più chiaro possibile e di denunziare gli errori fin qui commessi, a cominciare dai propri. Cultura non è né educazione, né istruzione, né informazione, né aggiornamento: è tutte queste cose unite, ma tenute insieme dalla capacità di rimettersi di continuo in discussione. Il che significa che cultura equivale a onestà intellettuale.
Alla luce di questo principio debbo denunziare per quanto mi riguarda un errore d’impostazione che ha in qualche misura inficiato finora i miei scritti e le mie riflessioni sull’Islam contemporaneo e sul suo rapporto col resto del mondo.
Nella discussioni tra fautori dello “scontro di civiltà” e, in particolare, del ruolo all’interno di essa delle religioni e delle confessioni, io mi sono sempre schiarato con decisione tra coloro che lo negavano o lo limitavano, sottolineando, invece, come il chiamare in causa le fedi religiose per spiegare le guerre e le tensioni che caratterizzano il mondo di oggi sia in gran parte falso, sbagliato e pretestuoso. Ciò ha potuto creare l’impressione che a mio avviso l’interpretare in termini religiosi le cause di conflitti appartenga a un atteggiamento “sovrastrutturale”, mentre si debbano sempre e comunque spiegare alla luce di motivazioni strutturali: cioè a lotte di potere o a ragioni economiche oppure geopolitiche. Ciò resta largamente vero, fermo restando, tuttavia, che nella partecipazione ai conflitti, le motivazioni soggettive di chi vi partecipa non debbano mai essere né sottovalutate né pregiudizialmente subordinate ad altre a sistematico vantaggio di una pretesa “obiettività”: ad esempio, la militanza di un “guerriero-missionario” jihadista o di un giovane occidentale deluso dalla Modernità che abbia scelto di riempire con un credo islamista il vuoto che la società dei consumi e dei profitti gli ha lasciato dentro in termini di disorientamento, d’insoddisfazione e di demotivazione, non può essere liquidata in termini di semplicistica “condanna del fanatismo”.
Ma, soprattutto, alle radici dell’attuale dilagare del terrorismo di matrice islamista esistono motivi squisitamente religiosi, che non è legittimo “derubricare” fino a interpretarli come pure “maschere” di ragioni politiche e/o ideologiche. Ciò non solo non è vero “alla base”, riferito ai guerriglieri-missionari e ai militanti dei gruppi terroristici; ma non è vero nemmeno riferito ad alcuni tra i loro mandanti, ispiratori e finanziatori.
Non c’è ad esempio dubbio che emiri e sceicchi arabo-musulmani siano nella configurazione esistenziale e professionale del loro ruolo profondamente “occidentali” in quanto finanzieri, imprenditori, organizzatori di lobbies capitalistiche e partners di quelle occidentali. Ciò non fa, tuttavia, di loro degli “occidentali” tout court, in grado di sfruttare cinicamente l’ingenuo fanatismo religioso di adepti subalterni alle organizzazioni militanti ch’essi in qualche modo ispirano o gestiscono: al contrario, essi condividono profondamente e diciamo pure sinceramente gli obiettivi politico-religiosi da essi perseguiti. D’altronde, il loro duplice ruolo di partners finanziari, economici, industriali, imprenditoriali e commerciali di lobbies occidentali e di alleati dei governi che esse sostengono (e delle quali quei governi appunto sono sempre più spesso “comitati d’affari”) non impedisce affatto di perseguire magari accanitamente scopi a carattere religioso-confessionale.
Tra essi, primaria è la fitna, la guerra religioso-civile tra sunniti e sciiti che, avviata nel VII secolo, non si è mai conclusa, ha avuto recrudescenze medievali e moderne (la lotta tra il sultanato selgiuchide e l’imamato fatimide nei secoli XI-XII e quella tra i sultani ottomani e gli shah safawidi tra XVI e XVII secolo) e si è infine drammaticamente ripresentata oggi in quanto la setta wahhabita, che condiziona fortemente i sovrani dell’Arabia saudita e gli emiri del Qatar, è ben decisa a combattere radicalmente e senza possibile compromesso gli sciiti iraniani, irakeni e siriani nonché gli alawiti seguaci del siriano Assad[1] e a ridefinire l’assetto politico e territoriale del Vicino Oriente sul presupposto dell’eliminazione o comunque della sconfitta di quelle forze. Nel contempo, sauditi e qatarioti impegnano massicciamente le loro risorse, frutto delle riserve di petrolio e di metano in loro possesso (e sono stati i vincitori della prima guerra mondiale, anzitutto i britannici, ad affidare nelle loro mani tali formidabili ricchezze facendo di loro delle autentiche potenze mondiali), per finanziare attraverso le loro organizzazioni “di beneficenza” che sono anche strumenti di missionarismo-proselitismo religioso (la Dawa ‘a Wahabiya saudita, la Qatar Charity catariota)[2] moschee e madrase nelle quali si diffonde quel credo wahhabita finora rigidamente minoritario nel mondo musulmano e considerato “deviante” dalla stragrande maggioranza dei teologi e dei giuristi islamici ma che, tuttavia, è oggi in forte e continua crescita grazie alla dovizia di mezzi dei quali i missionari dispongono. Wahhabi e sauditi non sono sempre d’accordo – i primi rimproverano ai secondi l’aver consentito l’impiantarsi di migliaia di soldati americani sulla “Terrasanta islamica”, cioè appunto in Arabia saudita, dopo la prima guerra del Golfo –; anzi, per certi versi possiamo affermare che i sauditi soggiacciano al ricatto wahhabita: sono d’altronde wahhabiti essi stessi[3].
Da qui dipende un nodo problematico inestricabile, un tragico ossimoro apparente e un’agghiacciante verità obiettiva: esiste un rapporto di complicità di fatto tra i governi occidentali (primo fra tutti quello statunitense), le lobbies multinazionali, le monarchie del Golfo, l’estremismo terroristico di segno salafita-wahabita, i gruppi fondamentalisti a questo ispirati e da quelle direttamente o indirettamente finanziati. Intendiamoci bene: nessuna compagine jihadista vuole sul serio fare la “guerra all’Occidente” o sconfiggere “i crociati occidentali”. La sostanza della loro azione resta la fitna antisciita. Al tempo stesso, però, i salafito-wahhabiti hanno ormai individuato con assoluta lucidità il metodo mortifero che sta loro consentendo di ampliare le fila dei loro adepti nel cuore stesso dell’immenso mondo musulmano, un miliardo e seicentomila fedeli sparsi in tutto il mondo, ch’essi sanno benissimo di non poter mai né conquistare né soggiogare nel suo complesso, ma all’interno del quale intendono con successo ampliare quanto più possibile la loro presenza e la loro influenza. Il metodo è, nella sua lucida brutalità, molto semplice e infallibilmente efficace: colpire con i loro attentati il mondo occidentale, spaventarlo quanto più possibile e determinare al suo interno la sempre più dilagante convinzione che l’Islam nel suo complesso sia una fede barbara e feroce, che la convivenza con esso sia impossibile e che i musulmani che lavorano a costruirla siano solo dei tiepidi credenti (quelli stessi che per i wahhabiti sono degli “apostati”) o degli ipocriti che fingono di collaborare con l’Occidente per meglio colpirlo al momento giusto.
La tenaglia wahhabita opera in Occidente con due formidabili ganasce: da un lato le rimesse milionarie che consentono edificazione di moschee e di madrase, opere assistenzali e umanitarie in favore dei musulmani più poveri e quindi propaganda[4]; dall’altro il sostegno ai terroristi che, con i loro delittuosi colpi di mano, radicano negli occidentali il pregiudizio dell’incompatibilità tra Occidente e Islam nel suo complesso. In tal modo, i musulmani che vivono tra gli occidentali, vittime di un pregiudizio ingiusto e tanto di misure punitive e segregative quanto del sospetto diffuso di chi li ospita, si vanno sempre più convincendo che la sostanza di quanto vanno predicando gli agitatori wahhabiti è vera, che cioè l’Islam è odiato globalmente per quel che è e per quel che significa. Alcuni aspetti di questo incredibile eppur a modo suo semplicissimo garbuglio sono stati recentissimamente illustrati dal limpido, lineare libretto di un giornalista e studioso statunitense che ha vissuto a lungo sia in Arabia Saudita sia in Iran e che vive oggi a Firenze ed è un fiorentino autentico, imparentato con una delle nostre più illustri e nobili casate cittadine: l’amico Terence Ward, l’opuscolo del quale (si legge d’un fiato, in un pomeriggio: e da quella lettura si esce veramente cambiati) dovrebbe diventar un libro di testo obbligatorio in tutte le scuole nonché presso i politici e i giornalisti[5].
A puro titolo esemplificativo, consentitemi una tanto lunga quanto qualificata citazione: quella – riferita per intero – della testimonianza di una situazione particolare esposta da un saggio autore del quale è Mahmoud Salem Elsheikh, un collega egiziano di nascita, musulmano di religione, italiano per cittadinanza (è tra noi da un sessantennio, ha sposato un’insegnante fiorentina cattolica, è padre di due figli ai quali ha lasciato assoluta libertà di scelta religiosa), grande studioso di filologia (tra i migliori allievi di Gianfranco Contini), membro della prestigiosa Accademia della Crusca. Insomma, il meglio in assoluto della nostra cultura filologico-linguistico-letteraria: il che non impedisce a questo formidabile studioso, esperto di storia della medicina musulmana medievale come di Dante e di dialettologia toscana due-trecentesca, di farci dono di queste preziose, coraggiose, illuminanti informazioni.
MAHMOUD SALEM ELSHEiKH
Un matrimonio indissolubile: Stati Uniti e Fratelli musulmani
Per capire quello che sta succedendo, non solo in Egitto, ma in tutta l’area mediorientale, bisogna risalire alla fondazione di quell’organizzazione di stampo massonico chiamata “Fratelli musulmani” alla fine degli anni ’20 del secolo scorso. Di “stampo massonico” nella sua finalità (possesso del potere) e nell’organizzazione; sull’analogia dell’iniziazione degli adepti, basterà leggere quanto scrive l’ex vice Guida Suprema della stessa Confraternita, da qualche anno però dissociato e fervido oppositore, Tharwat al-Kharabawi, in un recente volume eloquentemente intitolato: Il segreto del tempio.
Erano appena trascorsi due lustri dai rumori della Rivoluzione Bolscevica e l’Occidente temeva il propagarsi del germe comunista. Fu così che i Thinkers di Sua Maestà Britannica individuarono nell’attaccamento alla religione (considerata dal comunismo ‘oppio dei popoli’) allora radicato nel profondo dell’animo di una popolazione ancora “affetta” dal morbo del Califfato turco (che continuò fino al marzo del 1924 a sbandierare il vessillo di una fantomatica “unità dei musulmani”) uno degli l’elementi forti e persuasivi per contrastare l’eventuale pericolo marxista.
Il progetto di S.M. Britannica era piuttosto ambizioso in quanto non si limitava al solo Egitto, paese guida del Medio Oriente, ma doveva coinvolgere tutti i paesi dell’area, sotto occupazione o protettorati inglesi. Sotto gli auspici degli inglesi Hasan al-Banna (in arabo al-Banna significa ‘il muratore’: pura coincidenza?) coglie al volo l’intuizione inglese e costituisce una Confraternita col “marchio islamico”, che trova nelle forze d’occupazione un generoso finanziatore e un’ala protettrice che copre i suoi atti di violenza e terrorismo, dall’omicidio di personalità sgradite agli occupanti fino all’incendio del Cairo del 1952.
I Think Tanks americani scoprono, piuttosto tardi, questo potenziale esplosivo, e organizzano nel 1953, artefice principale il noto storico e orientalista britannico Bernard Lewis, un convegno “dal colore accademico” a Princeton, al quale invitano niente meno che il genero del fondatore della Confraternita e suo segretario personale Sa’id Ramadan (padre del “predicatore” Tariq e di Hani, il presidente del Centro islamico di Genève), che a partire da quella data divenne, così si sostiene con argomenti inconfutabili, “uomo degli americani e collaboratore della CIA”.
Questo rapporto fu potenziato negli anni con atti piuttosto clamorosi e ben documentabili, a cominciare da quando gli USA utilizzarono, strumentalmente, i Fratelli musulmani contro Nasser e nell’organizzazione del golpe del 1953 in Iran contro Musaddiq (dominava sempre di più la paura dell’infiltrazione russa in Medio Oriente), per non dire del loro ruolo fondamentale nelle guerre gihadiste, prima in Afghanistan dal 1979 al 1989, poi in Bosnia fra il 1992 e il 1995. Nel 2005 gli USA decidono di cambiare politica in Medio Oriente, liberando (si fa per dire) i paesi arabi dai vari dittatori e rimpiazzandoli con governi detti “democratici” guidati dai Fratelli musulmani, in obbedienza al famoso paradosso del “disordine creativo”, concepito dall’allora Segretario di Stato Condoleezza Rice. Lo stretto legame fra America e Fratelli musulmani è largamente esposto e ben documentato da Robert Dreyfuss in un libro dal titolo indicativo: Devil’s Game: How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam (Metropolitan 2005).
Ma è Robert Bruce Spencer, noto anti islamico e fondatore del movimento “Stop Islamization of America” (SIOA) nonché sostenitore, insieme a Pamela Geller, degli “anti-Muslim Hate groups” inglesi, a informarci che i Fratelli musulmani hanno lavorato negli States in modo attivo e pressante all’interno dell’Amministrazione. L’infiltrazione, dice Spencer, avviene attraverso le loro organizzazioni, quali, ad esempio, il “Consiglio per le relazioni islamico-americane”, le “Organizzazioni degli studenti musulmani”, l’”Associazione islamica del Nord America” e altre 29 organizzazioni che operano sotto l’ombrello di quello che anche l’Agenzia Federale di Controllo chiama “Organizzazione Mondiale dei Fratelli Musulmani”, costituita negli anni ’80 del secolo scorso.
Per di più, ed è il parere dell’Agenzia Federale di Controllo, sono penetrati all’interno dell’Amministrazione diverse persone affiliate ai Fratelli musulmani che hanno orientato e addirittura influenzato le decisioni dell’Amministrazione. Eclatante il caso di Homa Abdin, amica di Hillary Clinton e suo consigliere particolare, che ebbe un ruolo determinante nella decisione americana riguardo agli eventi del 25 gennaio 2011 in Egitto e al conseguente patto con i Fratelli musulmani. A dispetto di un rapporto presentato al Congresso nel 2011 che documentava lo stretto legame fra al-Qaeda e la Confraternita costituita da Hasan al-Banna.
Ma, come racconta lo scrittore e giornalista egiziano Abd el-Azim Hammad nel suo recente libro: La storia dei rapporti fra gli USA e i Fratelli musulmani, il 2007 fu l’anno cruciale della politica americana riguardo all’Islam politico. Proprio in quell’anno l’Amministrazione decide di unire tutte le organizzazioni aderenti ai Fratelli musulmani negli States in una ed unica Federazione. Scopo dell’operazione era quello di potenziare i centri di ricerca e i Think Tanks americani con una forte organizzazione islamista in grado di appoggiare la realizzazione del progetto del “Nuovo Medio Oriente”. Il via a questa operazione fu dato con un articolo uscito su “Foreign Office”, rivista nota per la sua influenza sulla politica estera americana, sulla necessità di distinguere, sia in USA come in Medio Oriente, fra musulmani “moderati” ed “estremisti”.
In seguito all’articolo di “Foreign Office”, precisamente il 28 giugno 2007, il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice autorizza i suoi diplomatici a prendere ufficialmente contatti con i Fratelli musulmani egiziani, siriani, iracheni e di altri paesi arabi. Il primo ad essere contattato fu il prof. Kamal al-Hilbawi, allora rappresentante della Confraternita in Europa, ma da qualche anno dissociato e convinto oppositore dei Fratelli musulmani (è stato da poco scelto fra i 50 esperti egiziani chiamati a scrivere la nuova Costituzione). Un mese più tardi, nel luglio 2007, “News Week” in collaborazione con “Washington Times”, sollecitati dall’Amministrazione, organizzano un megaconvegno – durato ben sette giorni – al quale furono invitati i cosiddetti “musulmani moderati”. A questo incontro la stampa americana, radio e TV compresi, dedica tanto spazio e diversi articoli. Uno in particolare su “Foreign Policy” suona come legalizzazione e riconoscimento ufficiale dei Fratelli musulmani nonché invito esplicito alla loro Guida Suprema di visitare gli States.
Quanto al rapporto fra la Confraternita e l’Europa, Steven Merley, ricercatore presso Hudson Institute e acuto osservatore delle organizzazioni dei Fratelli musulmani negli Stati Uniti e in Europa, autore fra l’altro di The Muslim Brotherhood in the United States (2009); The Federation of Islamic Organizations in Europe (2008); The Muslim Brotherhood in Belgium (2008), afferma che la Confraternita era riuscita a creare in Europa ben 19 organizzazioni sotto la copertura della cosiddetta “Federazione delle organizzazioni musulmane in Europa” (FIOE), l’ala europea della Confraternita, della quale si ignorano tuttora le fonti di finanziamento. Non solo. Il FIOE venne presto affiancato da un fantomatico “Consiglio Europeo per le Fatwe” presieduto da quel Yusuf al-Qaradawi, promotore recentemente dell’incendio del Cairo e degli atti di sabotaggio e terrorismo in tutte le province egiziane, nonché paladino di un intervento internazionale (ovviamente armato) in Egitto per il ritorno dei Fratelli musulmani al potere.
Il segretario generale di detta Federazione, Ayman Ali, fu chiamato al Cairo nel 2012 a ricoprire il delicato incarico di “Consigliere speciale” del deposto presidente Morsi. Contemporaneamente, uno dei massimi dirigenti del FIOE residente in Belgio, il siriano Bassam Hatahit, fu mandato a fare parte di quel “Consiglio nazionale” che si oppone a Bashar al-Asad, creato e sostenuto, non a caso, da Barack Obama e David Cameron.
Non meraviglia, quindi, che un membro del Congresso americano, il repubblicano Frank Wolf, abbia presentato una richiesta di indagine sull’operato del presidente Obama e del suo Segretario di Stato Hillary Clinton per chiarire le finalità di un finanziamento di 50 milioni di dollari concessi ai Fratelli musulmani per sostenere la campagna elettorale di Morsi contro Ahmad Shafiq. Pratica che il Congresso aveva accantonato, ma ora riesumata dopo la seconda rivoluzione egiziana del 30 giugno scorso e la rimozione di Morsi.
Di accordi segreti fra il presidente Obama e i Fratelli musulmani parla Robert Satloff, “Executive Director of the Washington Institute for the Middle East Policy”. Dice Satloff che Obama aveva stipulato un accordo di massima con la Confraternita, che prevedeva essenzialmente la sicurezza di Israele e la realizzazione dell’agognato progetto del “Nuovo Medio Oriente”. Secondo l’accordo gli USA si impegnavano a non ostacolare la politica interna dei Fratelli musulmani e a sostenere finanziariamente le loro iniziative. Così, dice Satloff, gli emissari americani arrivavano a frotte all’aeroporto del Cairo con le loro borse cariche di sostanziosi assegni, in barba a tutti gli abusi che la Confraternita praticava contro la popolazione.
Il Sinai, terra di confine
Il Sinai, considerato ora buco nero e fulcro di un’aspra contesa, era già stato preso di mira ed eletto come base operativa fin dal 2011 dai gihadisti – ala armata dei Fratelli musulmani – e da altra ciurma dell’internazionale del terrore, in quanto terreno non dissimile dall’ambiente afghano scelto dai gihadisti di al-Qaeda per la loro guerra totale contro “gli infedeli” (tutti i non gihadisti!).
E non è un caso che lo stratega di questo disegno sia proprio il medico egiziano al-Zawahri (uno fra i migliori gihadisti addestrati alla guerriglia in America), ora il numero uno di al-Qaeda dopo la scomparsa di Bin Laden. E potrebbe davvero sembrare strano che l’America sia artefice e finanziatore del progetto di fiaccare le truppe egiziane nel Sinai con azioni terroristiche e di guerriglia permanente. Ma a guardar bene e a dare credito alle fonti bene informate, non ultimo Robert Satloff, sembra che gli accordi stipulati fra Obama e i Fratelli musulmani prevedano essenzialmente la sicurezza di Israele e la soluzione del problema palestinese.
Non una soluzione globale dello storico “Problema palestinese”, ma hic et simpliciter dei palestinesi di Gaza mediante la cessione da parte dell’Egitto di una fetta consistente del Sinai ai “Fratelli di Hamas” da annettere alla Striscia e allargare la loro home land (non fanno parte dell’Organizzazione mondiale dei Fratelli musulmani?). Anche perché nell’ideologia dell’Organizzazione mondiale dei Fratelli musulmani “la terra dell’Islam comprende quel vasto territorio che si estende dai confini della Cina fino alla costa oceanica del Marocco”, così come “i confini nazionali attuali sono nientemeno che invenzione del colonialismo”. Ergo “chiunque segue la Fede islamica avrebbe il diritto (divino) di vivere e muoversi liberamente entro i confini di quel territorio, senza vincoli di provenienza”.
Alchimia politica? Niente affatto. Tutto ruota attorno alla sicurezza di Israele. Una volta neutralizzata Hamas e le sue formazioni armate, praticamente è risolto il problema della sicurezza dello Stato ebraico. In quanto i palestinesi di Ramallah e dei territori, sostengono gli esperti, stretti come sono nella morsa delle colonie, saranno gradualmente assimilati, o per meglio dire, “inghiottiti” dalla politica di “ebraizzazione” perseguita negli anni da Israele.
Dicono i bene informati che l’Amministrazione Obama, a sostegno di tale progetto, non solo versò ai Fratelli musulmani ben 8 miliardi di dollari, ma acconsentì (con l’ovvio compiacimento di Israele) fin dal gennaio 2011 il trasferimento dei seguaci di Bin Laden sparsi per il mondo sotto la guida di Muhammad al-Zawahri, fratello del capo di al-Qaeda, nella penisola del Siani. E non desta proprio meraviglia sapere che, per liberare Muhammad al-Zawahri, recluso in una prigione pakistana, si sia scomodato personalmente il defenestrato presidente Morsi, andando a Karachi a liberarlo e riportarlo a bordo dell’aereo presidenziale. Si spera che dal suo interrogatorio – è stato arrestato qualche settimana fa con una quantità imponente di documenti e mappe riguardanti progetti di assalti e sabotaggi nel Sinai – emergano altri particolari sull’accordo Obama-Fratelli musulmani.
Un segnale da parte della Confraternita sulla volontà di mettere in pratica l’accordo doveva presto arrivare. E non tardò molto! Dopo l’assalto alla postazione di Karm Abu Salem vicino a Rafah il 6 agosto 2012 e l’uccisione di 16 soldati egiziani intenti a consumare il loro pasto di rottura del digiuno (era il 17 di Ramadan), il defenestrato presidente Morsi si affrettò, non a promettere di identificare e punire i terroristi, ma a negare qualsiasi coinvolgimento di Hamas. Non solo. Impedì perfino, e la notizia è stata rivelata dopo il 30 giugno, ai comandi militari di stanza nel Sinai di indagare e perseguire gli assalitori, affidando invece l’indagine al Ministero dell’Interno.
Nel frattempo, in previsione di abbandonare parte del Sinai ai palestinesi di Gaza, il fu presidente Morsi concesse, in una sola settimana, la cittadinanza egiziana a 50.000 palestinesi affiliati a Hamas, naturalmente col plauso e la viva soddisfazione (come direbbe Crozza!) dell’America (ma anche di Israele). Molti di questi, si dice, appartengono alle Brigate Ezzeddin Qassam che, nelle intenzioni dei Fratelli musulmani allora al potere, avrebbero dovuto coprire le azioni terroristiche nel Sinai, addestrare le milizie e fare da scudo e guardia ai componenti del vertice della Confraternita. Ma qualcuno dei palestinesi arrestati, e non sono pochi, durante l’evacuazione di Piazza Rabi’aa al-Adawyyah e Piazza an-Nahdah giovedì 15 agosto 2013, fornirà senz’altro qualcosa di più preciso e più dettagliato sull’argomento.
Al coinvolgimento di Obama in persona in questa operazione ha alluso qualche settimana fa il figlio di Khayrat ash-Shatir, uomo forte dei Fratelli musulmani e Amministratore Delegato del loro patrimonio (ora in carcere in attesa di giudizio per accuse molto gravi), dichiarando ad una emittente araba che suo padre è in possesso di documenti scottanti che porterebbero Mr Obama dritto dritto all’impeachment. Ed ha aggiunto, come prova della sua affermazione, che l’Amministrazione non è in realtà interessata né alla sbandierata “legalità democratica” , reclamata a gran voce dai vertici dei Fratelli musulmani, né tantomeno alle sorti di Morsi. L’Amministrazione è fortemente preoccupata per eventuale scoperta di documenti che potessero chiamare in causa il presidente Obama, o quanto meno intaccare la sua immagine.
Ecco perché, sempre secondo il figlio dell’uomo forte della Confraternita, gli emissari americani dell’Amministrazione McCain e Graham non chiesero notizie di Morsi, né tantomeno reclamarono la sua liberazione durante la loro precipitosa visita al Cairo, ma pretesero una visita notturna a suo padre nella prigione di Tora. Richiesta soddisfatta dalle Autorità egiziane, contravvenendo ai regolamenti carcerari. Volevano i senatori americani, John McCain per i repubblicani e Bob Graham per i Democratici, informarsi direttamente sulle intenzioni del recluso ash-Shatir riguardo ai documento in suo possesso relativi ai rapporti fra Obama e i Fratelli musulmani. Cercavano precise garanzie che certi documenti non sarebbero mai stati resi pubblici, soprattutto dopo che varie fonti d’intelligence e diplomatiche (particolarmente russe) avevano rivelato l’esistenza di una rete triangolare di traffico d’armi che coinvolgeva McCain, come mercante e venditore d’armi – anche per conto dell’Amministrazione Obama -, i Fratelli musulmani, quali acquirenti tramite il loro collettore di fondi e Amministratore del patrimonio, Khayrat ash-Shatir, e la società di trasporti di proprietà della famiglia turca Erdogan. Si parla di almeno tre carichi verso gli oppositori siriani e, via Libia, due ai Fratelli musulmani in Egitto.
Questo, unito ad una notizia di fonte israeliana (l’agenzia DEBKA vicina al Mossad) che asserisce che la notte fra il 14 e 15 agosto scorso, alla vigilia cioè dell’evacuazione di Piazza Rabi’aa al-Adawyyah e Piazza an-Nahdah, il generale al-Sisi si rifiutò di rispondere ad una insistente telefonata del Presidente degli Stati Uniti, spiegherebbe forse l’imbarazzo di Obama, il comportamento al limite dell’isteria di Ragab Tayyb Erdogan e dell’Emiro del Qatar, servo sciocco degli americani e principale finanziatore dell’impresa. Più che altro sembra che l’emiro sia rimasto piuttosto deluso, poiché l’ingloriosa fine della Confraternita segna il suo risveglio da un sogno a lungo accarezzato di farsi nominare “Califfo dell’Islam”. Con la benedizione della Guida Suprema della Fratellanza e del più prestigioso dei suoi soci, il turco Ragab Tayyb Erdogan!”
Lo scritto di Salem è di qualche tempo fa: ma lo abbiamo integralmente riportato senza toccarne una riga.
Questo è solo un assaggio dei retroscena di una situazione che nella sua complessità ci è di solito ignota, inaccessibile se non addirittura impensabile e inconcepibile. Siamo purtroppo al centro, come possibile obiettivo dei colpi di mano terroristici ma certamente come oggetti di continua e sistematica disinformazione, di una complessa rete di menzogne, di reticenze, di silenzi, di costruzioni disinformatrici-controinformatrici che gran parte dei nostri politici e dei nostri media riprende ed amplifica sistematicamente e irresponsabilmente, è difficile dire se per ingenuità, per ignoranza, per scelta politica o per prezzolato interesse. Da una parte i terroristi ci colpiscono, da un’altra i loro ispiratori e finanziatori sono tra noi come alleati politici internazionali e come partners in ricchi business, da un’altra ancora i musulmani che tra noi hanno tutta l’intenzione di vivere e di lavorare in pace vengono fatti oggetto di continue ingiustizie (dalla contestazione del loro diritto costituzionale di pregar liberamente in moschee da loro edificate fino all’allucinante “diritto” che stando a un’infame sentenza dell’Alta Corte Europea i datori di lavoro avrebbero di licenziare le donne e le ragazze islamiche ree di “ostentare simboli religiosi”, vale a dire di coprirsi i capelli e il collo con un semplice hijab, del tutto simile al foulard che portava mia madre quando andava in centro città a fra compere e alla “pezzuola” con la quale mia nonna si copriva la testa quando andava in chiesa), da un’altra infine ci viene proibito di convivere e di commerciare tranquillamente con i cittadini di un grande civilissimo paese come l’Iran mentre facciamo di continuo la corte a stimati signori i quali sono tra i più generosi acquirenti delle nostre fabbriche di armi passate quindi a meno stimati – ma altrettanto disistimabili – signori che se ne servono per far fuoco su di noi e indurci a odiare indiscriminatamente tutti i musulmani, anche quelli che sono per noi sinceri amici e preziosi compagni di lavoro.
Il vecchio Bertolt Brecht perdeva spesso le occasioni di star zitto. Però, a volte, aveva ragioni da vendere. Come quando ammoniva: “Quando marciate contro il nemico, attenzione che il nemico non marci alla vostra testa”.
Note
[1] Una bella esposizione sintetica dell’alawismo nelle sue complesse implicazioni mistico-filosofiche (le quali lo rinviano al cristianesimo e all’orfismo-neoplatonismo) è in A. Negri, Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017.
[2] All’inizio del febbraio di quest’anno il governo italiano ha siglato un accordo di collaborazione con dieci organizzazioni musulmane attive in Italia, con lo scopo di regolare i processi d’integrazione e di cooperazione tra esse e lo stato. Le associazioni hanno fra l’altro convenuto di assicurare la trasparenza dei fondi, la formazione degli imam, l’apertura quanto meo parziale dei loro centri religioso-culturali e la lotta contro il radicalismo religioso, a fronte dell’impegno dello stato a estendere alcune esperienze locali d’integrazione sul territorio nazionale di promuovere una conferenza dell’Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia (ANCI) sul tema della presenza delle moschee sul territori nazionale. Va da sé, ed è fondamentale il dirlo, che il fatto che una comunita musulmana accetti il sostegno economico d un’associazione saudita o qatariota non fa certo dei suoi dirigenti non diciamo dei sospetti fiancheggiatori del terrorismo, ma neppure automaticamente di sostenitori della confessione bewahabita.
[3] In questo nodo problematico rientrano appieno il pasticcio afghano, le due guerre del Golfo del 1991 e del 2003, gli attentati dell’11 settembre 2001, i garbugli kurdistano e palestinese: cfr. D. Berruti, La chiamavano guerra. Appunti di viaggio sulla pace e sull’arte di costruirla, Milano, Infinito, 2012.
[4] Nell’agosto del 2016 l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), la più importante associazione musulmana nel nostro Pese – alla pubbicazione della traduzione italiana del Corano edita dalla quale per i tipi della Newton Compton io ho avuto l’onore di apporre un’Introduzione – ha confermato l’impegno di Qatar Charity di costruire in un prossimo futuro 33 centri culturali musulmani sulla base di un donativo totale di 25 milioni di euri. Va d’altronde segnalato che l’autorevole Washingto Institute for Near East Policy ha segnalato Qatar Charity fra le istituzioni che finanziano i movimenti islamisti sotto la copertura dell’aiuto umanitario, che finanziano i gruppi jihadisti del Sahel e ch secondo Bin laden nel 1993 sostenevano a livello internazionale al-Qaeda. In Siria, i gruppi jihadisti antiassadisti hanno beneficiato del sostegno del medesimo sodalizio. Nel febbraio 2015Yahia Sadam, responsabile degli aiuti umanitari del movimento di liberazione sudanese Minni Minnawi, ha accusato il Qatar di avere assistito le truppe governative sudanesi nelle loro illegali operazioni repressive nei confronti della popolazione civile.
[5] T. Ward, Per capire oggi il Medio Oriente. L’ISIS spiegata ai giovani, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 2017.