“Bisogna essere liberi per volerlo diventare”, così si legge nel Trattato del ribelle di Ernst Junger, a metà strada tra il paradosso e la reiterazione filosofica dal gusto nicciano (diventa ciò che sei). Sentenza utile per indagare il rapporto che il pensatore di Heidelberg ebbe con le droghe; frequentazioni rischiose, sviluppate nel volume Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza (Guanda, 2006), che genericamente non avrebbero nesso coerente con lo stereotipo “ordine e disciplina” dello scrittore-soldato. Ciò che colpisce nelle esperienze d’alterazione raccontate da Junger – dalla birra all’etere in gioventù nelle trincee d’acciaio, poi nel dopoguerra oppio, cocaina, hashish, mescalina, fino all’LSD per solitarie contemplazioni – è l’originalità riguardante motivazioni e modalità. Altroché Iggy Pop o Keith Richards, la vera stella ribelle del ‘900 fu Junger. Non siamo infatti dalle parti dello spleen maledetto di Baudelaire e Rimbaud, nemmeno da quelle suburbane e dannate di Bukowski, a fatica si possono fare raffronti con Hemingway o, nella polarità opposta, con le criptiche formule iniziatiche, esposte ad esempio nel triplice tomo Introduzione alla magia, laddove si narra di acque corrosive e della Via della mano sinistra. Piuttosto, quello che qui consta enucleare, è la scelta di affrontare il sentiero più difficile, la strada impervia, la cosiddetta via del bosco. Contemporaneamente fuga e slancio.
La conoscenza iniziatica, invero con Junger sempre resa in un serrato confronto tra tecnica (il mondo moderno o futuribile, dalle inquietanti velature distopiche) e tradizione (l’imperium ancestrale, la mappa cosmogonica degli argonauti), si risolve essenzialmente in una radicale scelta individuale antiborghese, in perigliosa esplorazione tra fuochi e ghiacci, alla ricerca del senso più profondo dello stare al mondo. Assonanze con Huxley (Il mondo nuovo, 1932), pur nella limitazione del tratto paranoico-complottista, anzi addirittura con uno strano ottimismo, presente negli ultimi libri del tedesco. La rotta consapevole dell’anarca è difatti cinta dagli opposti, da potenziali pericoli, siano questi palesabili nella forma di tentazioni accomodanti, che in quelle di avversità dalle quali difendersi; prenderne coscienza, anche grazie ad una trasmutazione psichedelica delle regole consortili, è segno di non aver smarrito la via, alternativa a quella battuta dalle greggi. Si badi, non è una posa estetica, un vezzo per piccoli emuli degli hippy, il compitino d’anticonformismo per sciatti studentelli annoiati; tutte quelle infime storie inconcludenti, in quanto prive d’epica, sono destinate all’irrilevanza. Con droghe o senza. Sempre parafrasando Nietzsche: un’ebbrezza per tutti e per nessuno.
C’è nella narrazione jungeriana quell’elemento scientifico straniante – non inteso nell’attuale accezione ideologica, progressista e pupazzesca, farcita da indigesto materialismo post-illuminista – che ribadisce l’ascendenza dalla rigida disciplina prussiana. Si tratta della freddezza di uno sguardo acuto e catalogatore, eremitico, così palese ad esempio nella perlustrazione microcosmica di Cacce sottili (Guanda, 1997), un prontuario botanico, morfologico ed entomologico assai illuminante. Attraverso questa chiave di lettura “oggettiva” e sapienziale, aggiungiamo pure molto tedesca, prende le mosse quella diarchia – tra infinitamente piccolo ed infinitamente grande, tra natura e meccanica – che segnerà tutta la poetica di Junger: il ginepro selvatico e la ruota dentata, lo scarabeo e il Mauser Gewehr 98, il ruscello ed il tornio, la fabbrica e la baita, la metropoli ed il bosco. Sono gli archetipi sul quadrante di un pendolo oscillante: muri di cinta per confini tracciati, resi sicuri da un eterno calpestio e dalle benaugurali pietre miliari. Ma è altresì sconfinamento, l’atto eroico di deviare, di andare oltre la contingenza spaziotemporale, di abbandonare la retta via.
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Anche il racconto breve Visita a Godenholm (Adelphi, 2008), insiste su certi stati d’allucinazione, fughe lisergiche e scatti onirici, l’evocazione di una visuale sul mondo diversa, altra. Ernst Junger, ricordiamo morto a 103 anni, può essere definito un viaggiatore totale, cercatore di segni nel reame del tangibile e altresì indagatore “speleologo”, nei recessi del cammino interiore. Ordinatore di forze caotiche, sperimentatore indomito, seppe fare del cielo una bussola e della terra una strada: “Non solo lo spazio e il tempo, ma anche l’elemento personale e quello impersonale, l’io e il non io, il soggetto e l’oggetto sono forme della nostra rappresentazione. Nel momento in cui lo spirito riesce a compiere, liberandosi dalla sfera dei fenomeni, dei passi verso le altezze o le profondità, questo nostro mondo di forme si dissolve: la luce diventa troppo forte, esso deve indietreggiare. Tutto ciò che è personale equivale a separazione, a prestito. C’è una felicità più grande di quella implicita nella personalità, ed è l’abnegazione. Qui padre e madre sono un’unica cosa” (Al muro del tempo, Adelphi, 2000).