Uno sguardo ieratico da chi è sacerdote di se stesso, “raro sopravvissuto di una vecchia stirpe incantata”, seduto su un tappeto persiano che evoca mondi lontanissimi, nascosto dietro lenti da sintomatico mistero e sotto un colbacco scuro. Franco Battiato ne fa settantadue. “In 1945 I came to this planet”. Sintesi tra suoni ancestrali e sperimentazione assoluta, spiriti etnici e venti d’Oriente, nel solco della Tradizione e di un attaccamento virgiliano alla sua terra. Eclettico, regista, pittore, scrittore. E noi proviamo a inquadrarlo con dei frammenti dei suoi pezzi, storici e non.
“Io stavo sempre seduto/ sopra un muretto/ a guardare il mare/ ogni tanto passava una nave” (Sequenze e frequenze, 1972)
Sarebbe troppo semplice partire dalle hit più celebri. Battiato è la Sicilia. È una struggente conversione sinfonica della buttanissima e del feroce saracino buttafuochiani. È la regione da cui, giovanissimo e posseduto dal suono prog del suo VSC, fugge esasperato (“Padre/ fammi partire”). Ma ci tornerà – eccome! – rigenerato, trovandoci il refugium vitale dal mondo e chiudendo il cerchio, girando Perdutoamor, all’urlo di Stranizza d’amuri.
“… L’esoterismo di René Guenon/ una signora vende corpi astrali/ i Buddha vanno sopra i comodini…” (Magic Shop, 1979)
Battiato è antimoderno. Con l’Era del Cinghiale Bianco, scopre Guénon e la crisi della modernità. L’imperativo è “fermare la latinizzazione della lingua araba” (così nel video di Voglio vederti danzare). E Magic Shop è un ritratto spietato di un Occidente a pezzi, lacerato da una degenerescenza inarrestabile e da aberranti mercificazioni: imperano i “supermercati coi reparti sacri” e le “rubriche aperte sui peli del Papa”. La salvezza? Sta negli echi delle danze sufi, nell’Islam che resiste (intimamente connesso alla Sicilia) e nel tener ben presente la bussola del Re del Mondo. E nelle pratiche di Jodorowsky.
“Le barricate in piazza/ le fai per conto della borghesia/ che crea falsi miti di progresso” (Up patriots to arms, 1980)
Battiato è antimoderno parte 2. Chi vi credete che noi siamo? Battiato è sempre più lucido osservatore della modernità e delle sue armi. Mette in guardia i pochi che lo ascolteranno: il mito del progresso è l’impietoso alfiere del Kali Yuga. Tra ammiccamenti all’Iran khomeinista (antiamericanismo quasi evoliano) e i rivoluzionari “mandiamoli in pensione i direttori artistici/ gli addetti alla cultura”, le melodie – del divino Giusto Pio – e il pensiero del Maestro percorrono nuovi binari. Inesplorati. Con la voglia di vivere ad alta velocità come i Treni di Tozeur.
“Ho sentito degli spari in una via del centro/ quante stupide galline che si azzuffano per niente/ Minima immoralia…” (Bandiera Bianca, 1982)
Battiato è antimoderno parte 3 anche con i suoni che vanno di moda e piacciono ai Mister tamburino. “Per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare/ quei programmi demenziali con tribune elettorali”: l’Italia, dantesca, è inghiottita dai vizi. E come è misera la vita negli abusi di potere. Cosa ci resta? Sventolare una bandiera bianca?
“Povera patria/ schiacciata dagli abusi del potere/ di gente infame che non sa cos’è il pudore” (Povera patria, 1991)
Battiato non è politico. Povera patria è una deroga all’apolitia a cui ha giurato fede. Degrado morale e poche – ascetiche? – speranze: dobbiamo credere solo nella primavera, che però “tarda da arrivare”. C’è da ammettere, però, che qualche soddisfazione sparsa il Nostro ce la regala. È il caso della canzone Ermeneutica (2004): “S’invade/ si abbatte/ si insegue/ si ammazza il cattivo/ si inventano democrazie”. Tranciante e lapidario.
“È tempo di lasciare questo ciclo di vite/ e non mi abbandonare mai/ perché le gioie del più profondo affetto/ o dei più lievi aneliti del cuore/ sono solo l’ombra della luce” (L’ombra della luce, 1991)
Battiato è l’esperienza più intima che si possa avere. L’ombra della luce – che canterà in arabo a Baghdad – non è solo il senso del bardo tibetano (a cui il Maestro dedicherà un docu-film nel 2014), ma una dolce preghiera, che dal Sé punta all’ultraterreno. Spiritualità e risposte trovate sono le chiavi di un inno alla Bellezza. E di un’ode all’Inviolato. “Come non sprecare il tempo che mi rimane?”.
“Le tue strane inibizioni/ non fano parte del sesso/ i desideri mitici di prostitute libiche/ il senso del possesso che fu pre-alessandrino” (Sentimiento nuevo, 1982)
Battiato è mondana ode all’eros più puro. La poikilìa va a braccetto con il sentimento, che è sfrenato incantesimo che echeggia di mondi sacri (da quello greco a quello delle geishe) ed è vittima dell’irrisolvibile antinomia tra il divino e la brutalità. E sorride, fiero, il filosofo Manlio Sgalambro, a lui vicinissimo e autore di molti suoi testi.
“Conosco le leggi del mondo/ e te ne farò dono/ supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare” (La cura, 1996)
Battiato è antica ode all’amore più puro. Una preghiera al contrario e salvavita? Più che semplice poesia, è una panoramica delle meccaniche celesti. E i sogni attraversano il mare più veloci di aquile.
“Cerco un centro di gravità permanente/ che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente” (Centro di gravità permanente, 1981)
Battiato è pop. E questo ci piace tanto. Centro di gravità permanente è record d’incassi, ma è celebrazione (sul filo del no-sense mediatico e di un video futurista) e trionfo di essenze, dei gesuiti euclidei e degli imperatori della dinastia dei Ming. Un dipinto infinito che non sopporta le tendenze come il free jazz punk inglese.
Battiato non è tutto ciò, è molto di più. È un mondo che parla, creduto crepuscolare da tutti, pulsante e diretto. In un linguaggio universale. E il cantore che ha l’arduo compito di tramandarlo non può che essere un’aquila, di quelle che non volano a stormi. Di quelle alla perenne ricerca della via. Auguri, Maestro. “In silenzio soffro i danni del tempo/ le aquile non volano a stormi/ vivo il rimpianto della via smarrita/ nell’incerto cammino del ritorno” (Le aquile non volano a stormi, 2004).