Spot e animalismo disneyano. Due segni della stagione della vacuità sono la pubblicazione compulsiva di manufatti gastronomici sui social network e l’animalismo col cuore in mano memore dei cartoni animati.
Nel primo caso a contare non è tanto l’appetito, bensì l’astrazione sul cibo, il desiderio di chiudere in una manciata di pixel l’eternità del cibo ideale, che non smetterà di essere dal momento che sarà ingoiato e defecato, ma quando sarà superato dal prossimo post, magari sulle scie chimiche. Il cibo ideale venduto a gratis nei social sarà senz’altro studiato dagli esperti del marketing e della vendita, che ringrazieranno sentitamente.
E un tripudio da fervore pubblicitario l’abbiamo nel caso dei cibi etici, che sono propinati con un plus di smania persuasiva tale da svergognare i più efficaci spot pubblicitari televisivi degli ultimi decenni. Sì, perché qui, diversamente dal primo caso, entra in gioco un impulso irrefrenabile a intruppare e convincere che, orfano della religione ufficiale, finisce per generarne una nuova, nevrotica e petulante, abile nella vendita on line.
Non ci sarebbe nulla di male, e per carità, magari ce n’è comunque poco, se non fosse che quest’esperienza si realizza nell’inconsapevolezza, un’inconsapevolezza che può germogliare laddove anziché faticare sui libri di storia e di filosofia e di scienze si è indugiato a lungo sugli spot televisivi e nel cazzeggio da gioventù giocherellona.
Il secondo caso non stupisce e un po’ si scopre l’acqua calda. Per coloro che sono nati negli anni Cinquanta, e prima, non si pone il problema. Per coloro che sono nati nei Sessanta inizia a porsi; per quelli dei Settanta e oltre la frittata è fatta e gli animali parlanti e mediamente benintenzionati dei cantoni animai da Walt Disney in poi producono l’odierno senso comune animalista.