Se un racconto comincia con “c’era una volta” il brutto perde e il bello trionfa sempre, arrivano principi azzurri a liberare leggiadre principesse. Di una favola ribelle è protagonista la Sicilia di Gaetano Savatteri che è leggiadra come tradizione vuole e pure prigioniera. Il principe, Savatteri , è un acuto e dotto narratore di quella “terra felice di passioni estreme e contrapposte” (diceva Stendhal) che è la sua terra. In “Non c’è più la Sicilia di una volta” (ed. Laterza, 2017) Savatteri attraversa la Sicilia, la sua letteratura, i suoi culti e la sua cultura con il tentativo, ardito di liberarla dalle catene di pregiudizi, e riuscito di spingere a un dovere etico: non restare chiusi dentro la prigione dell’irredimibilità.
Incorniciati da un’introduzione e un epilogo che fanno eco, i dodici capitoli del libro di Savatteri sono altrettante tappe di un viaggio che sembra negare se stesso, mancandogli la nostalgia. A cosa non vuole tornare Savatteri? Di certo, all’insicurezza e alla diffidenza che sono un tutt’uno con il “mal di Sicilia”, alla paura -di cui parla Leonardo Sciascia- storica ed esistenziale insieme.. Un periplo è sempre il viaggio insulare e Savatteri comincia il suo con un’affermazione scandalosa
“Non ne posso più di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Guttuso. Non ne posso più vinti; di uno, nessuno e centomila; di gattopardi; di uomini, mezz’uomini, pigliainculo e quaquaraquà […]Non ne posso più della Sicilia immaginaria” per chiudere ancora con Sciascia e con lo sconquasso dell’alibi dell’irredimibilità.
“Per chi, come me,- afferma Savatteri- è cresciuto a Racalmuto, ha conosciuto Leonardo Sciascia e ha letto i suoi libri come specchio del proprio tempo e del proprio luogo, la lezione di Sciascia è imprescindibile. Ma Sciascia che sosteneva il valore della memoria (al punto da intitolare così una delle più importanti collane della casa editrice Sellerio), era capace di usare la memoria per illuminare il presente. Sciascia era modernissimo quando, nel suo Giorno della civetta raccontava per la prima volta cos’era e cos’era diventata la mafia siciliana. Il peggior dispetto che possiamo fare a Sciascia, scrittore del suo tempo per certi versi profetico, è di fossilizzarlo, monumentalizzarlo e renderlo innocuo, trasformandolo nel cantore di una Sicilia pittoresca”.
‹‹Isola-senza›› è la sintesi che sostiene il concetto di irredimibilità. E’ possibile un’ ‹‹isola-con›› ?
“Non sono d’accordo con il concetto di irredimibilità. Non ci credo e mi sembra l’alibi per giustificare le inefficienze e le carenze dell’isola. Isola-senza, certo. Senza molti diritti primari, in primo luogo: ma non perché sia irredimibile, piuttosto per la sua storia e per essere stata amministrata e guidata negli ultimi decenni da una classe dirigente rapace, buona a ritagliare privilegi per sé e per le proprie clientele. Ma c’è anche un’isola con buone intelligenze, tenacia nel voler fare, onestà nel modo come si devono fare le cose. Non so se questa isola-con sia minoritaria o maggioritaria: di sicuro viene fuori e tratti, con discontinuità. Ma esiste”.
Il 1992 è la data assunta come spartiacque, l’anno degli attentatuni e degli omicidi eccellenti. Si può prescindere davvero dalle categorie di “mafia” e “antimafia”?
“Per tutto un lungo periodo – che va sicuramente dagli anni Settanta fino al 1992, ma anche prima se pensiamo alle guerre di mafia degli anni Sessanta – la Sicilia, e Palermo in particolare, era aggredita dalla violenza di Cosa Nostra. In quegli anni si è anche strutturata e definita una Sicilia dell’antimafia, che da minoritaria (nella società e nelle istituzioni) ha ampliato la propria area di influenza, al punto tale da modificare perfino il linguaggio. Oggi nessuno può più proclamarsi mafioso: perfino il mafioso almeno pubblicamente deve dirsi antimafioso. Con tutti gli inganni e le ambiguità che ne conseguono. In quei decenni, fino al 1992, la Sicilia poteva raccontarsi e venire raccontata solo all’interno di questo scontro tra mafia e antimafia. Non c’era spazio né modo per raccontare molto altro. La mafia ha anche questa responsabilità, oltre ai delitti e alle violenze, di avere compresso per decenni l’espressione artistica, letteraria e narrativa della Sicilia”.
A proposito di immagine della Sicilia. La Sicilia di Ficarra e Picone o di PIF è davvero così lontana da quella senza scampo di Pietrangelo Buttafuoco? In fondo “Buttanissima Sicilia” è rabbia e amore.
“La differenza è di tono. L’ironia è una cosa, il sarcasmo un’altra cosa. La risata è disincanto non rassegnato, la rabbia è furore a volte disperato. Ma tutti questi artisti, registi e scrittori di cui parli hanno cercato e cercano di raccontare la Sicilia, i suoi guasti e la sua bellezza, i suoi drammi e le sue speranze. In fondo, come dice Francesco Merlo, i siciliani sono sempre malati di “sicilianogia”: un malattia in cui si è allo stesso tempo il male e il paziente”.
Savatteri dedica pagine importanti alla Bellezza, raccontando l’esperienza di Ludovico Corrao nella valle del Belìce, del Farm Cultural Park di Favara, di Antonio Presti a Fiumara d’Arte. Ma non ci sta a coniugare Bellezza e antimafia. Porta esempi di realtà in cui la Bellezza è valore in sé, è cultura: la Fondazione Prada e la Fondazione Feltrinelli a Milano sono cultura, moda, tendenza. La Fondazione Pinault a Venezia è bellezza, arte, business. E aggiunge: “Se in Sicilia si fanno le stesse cose, perché dobbiamo declinarle in termini di antimafia. Certo, potrei dire che la Bellezza (con la B maiuscola o minuscola) è di sé contro la mafia. Ma questo vale anche a Milano, dove di mafia e di ‘ndrangheta da qualche tempo se ne intendono. E nel Veneto, dove fino a una ventina di anni fa la banda di Felice Maniero insanguinava paesi e città con metodi mafiosi. Eppure solo e soltanto in Sicilia misuriamo il Cretto di Burri di Gibellina con il metro dell’antimafia. Non so se Burri sarebbe d’accordo”.
Ci sono nel libro di Savatteri, scritto con una prosa ariosa che sembra suggerire altro linguaggio per le cose di Sicilia, le metafore del glam, della sottoveste, del “pititto”.
“La Sicilia del pititto, cioè della fame atavica – spiega Savatteri – ha avuto e ha una lunga epopea. Grandi scrittori e attori hanno raccontato la fame del dopoguerra siciliano, una fame che camminava per le strade di Palermo, a volte perfino ben vestita (Salvo Licata, che era un grande giornalista e scrittore, parla di “miseria in colletto”). Per fortuna quella fame non c’è più. Ma dentro molti pezzi teatrali di Emma Dante si risente quella fame, quel bisogno di mangiarsi il mondo, di essere sempre in arretrato. Forse sono nuovi appetiti. E perfino le sottane nere e le canottiere bianche di Dolce&Gabbana strizzano l’occhio a quella fame, a quel “poveri ma belli” molto italiano e molto siciliano che fece la fortuna dei due stilisti. Insomma, ora che la fame non c’è più, se ne può parlare e scrivere come di qualcosa di affascinante, con la nostalgia di quanti non hanno mai conosciuto veramente la fame e dicono che si stava meglio quando si stava peggio”. Al rapporto tra sesso e Sicilia è dedicato il capitolo più spinoso.
“Nella letteratura siciliana il sesso c’era, soprattutto in Brancati e anche in Ercole Patti. Ma non c’era innanzitutto il racconto “al femminile” del sesso. E questo ormai c’è: penso a Melissa Panarello, Goliarda Sapienza, Giuseppina Torregrossa. E non c’era nemmeno il racconto dell’omosessualità legato alla mafia, che invece Domenico Seminerio ha messo in luce. D’altra parte la mafia è un sistema di famiglie aperto solo agli uomini. Uno psicanalista freudiano forse ci leggerebbe un’allusione omoerotica”.
La letteratura. Nel capitolo “Esperanto siculo” del dialetto di Bagheria (cittadina dell’area di Palermo, ndr) si legge “Il bagarese parla agli italiani, il baarioto può parlare a tutti”. La lingua siciliana è riguardo all’identità ponte o trincea?
“In Sicilia si dice: chi ha lingua passa il mare. Il merito prima di Camilleri e poi di tutti quelli che ora usano il dialetto in teatro, nei libri e nella musica è quello di averlo tirato fuori dalle nicchie dei poeti dialettali, del folk, degli studiosi e di avergli restituito la sua forza espressiva. Un dialetto potente, ancora vivo e molto parlato, era ricoperto di polvere perché quando veniva scritto in realtà non parlava più a nessuno. Credo che il siciliano nelle sue forme artistiche sia tornato una lingua che fa passare il mare, altrimenti non si spiegherebbe il suo successo nei teatri, nei cinema e nelle librerie di tutta Italia e d’Europa”.
Cos’è oggi per Savatteri la letteratura siciliana? E’ avanguardia? Qualche nome?
“Ne abbiamo fatti molti, e non ne faccio altri perché rischio di dimenticare qualcuno. Ma cito invece un grande critico letterario come Salvatore Silvano Nigro che recentemente ha parlato di “rinascimento” della letteratura scritta in Sicilia (non esiste infatti una letteratura siciliana, ma una letteratura italiana scritta alla latitudine della Sicilia). Mai come oggi ci sono tanti bravi scrittori e bravi scrittrici siciliane. La letteratura scritta in Sicilia, per molte ragioni, ha saputo essere contemporanea e moderna. Per altro, c’è una lunga tradizione di autori d’avanguardia, magari meno noti al grande pubblico, che sono stati proprio avanguardia anche linguistica. Penso ad Angelo Pizzuto, Angelo Fiore, Michele Perriera, Antonio Castelli. Non dimentichiamo che il famoso Gruppo ’63 di cui facevano parte Sanguineti, Eco, Arbasino e molti altri nacque proprio a Palermo. Ancora oggi questa vena sperimentale è viva, attiva e importante”. Poi la conversazione si sposta sul cibo e sulla querelle irrisolta tra arancini e arancine e si finisce per parlare dei due volti della Sicilia”.
Palermo e Catania possono essere specchio di due modi diversi di essere Italia?
“Catania e Palermo sono due mondi diversi, come lo sono Milano e Roma. Figlie della propria storia, le due città si vivono in maniera differente. Non so se riflettono due modi diversi di essere italiani, ma l’Italia è fatta di tante città per fortuna tutte con la propria anima”.
Savatteri cita il giornalista Pippo Fava: “Catania è colei che corrompe, Palermo è colei che si fa corrompere. Catania corre per andare a vedere le cose, Palermo sta quieta in attesa che le cose le passino dinnanzi. Catania è nera, Palermo è bianca. Catania è popolare, Palermo nobile”.