La ricerca storica è, per definizione, revisionista. Lo storico autentico cerca nuovi documenti su cui poter fondare i propri giudizi su un’epoca, un personaggio, un evento. In particolare, documenti che possano smentire le interpretazioni consolidate, tradottesi in vera e propria vulgata e sacralizzate dal senso comune. Gli storici revisionisti italiani che si sono occupati in termini critici del Risorgimento, hanno patito più di altri la loro appartenenza ad una minoranza intellettuale e per questo, in diverse circostanze, sono stati accusati di lesa maestà. Del resto, fino a qualche anno fa, l’esegesi prevalente del secolo XIX in Italia, risentiva in modo esclusivo della visione crociana e della conseguente esaltazione della religione della libertà. Le cose sono cambiate. Tra gli studiosi “revisionisti” del Risorgimento si è distinto, per le numerose pubblicazioni, Luciano Salera. La sua ultima fatica è stata da poco edita da Solfanelli con il titolo, La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita (per ordini: edizionisolfanelli@yahoo.it, 335/6499393, euro 19,00).
In queste pagine, Salera propone all’attenzione dei lettori un episodio minore della storia risorgimentale, che vide coinvolto, non semplicemente in termini politico-militari, uno dei suoi eroi, Garibaldi: la morte di sua moglie Anita. L’autore si inserisce in una linea interpretativa che qualche successo aveva ottenuto all’inizio del secolo scorso, per essere ripresa negli anni Trenta. Allora, una serie di inchieste giornalistiche, era riuscita a risvegliare l’interesse sul mistero della morte di Anita, uno dei tanti enigmi dell’epopea patriottica (morte di Cavour, di Nievo ecc.), in quanto l’italiano medio è da sempre sensibile al fascino di vicende capaci di sintetizzare in uno, ideali politici, passione sentimentale e suspance da racconto giallo. Fin dall’incipit, l’autore chiarisce le sue intenzioni “Il problema non era raccontare che Anita è morta di malaria contratta, grosso modo, nel periodo a cavallo tra la Repubblica Romana, finita precipitosamente, dopo una breve vita di soli cinque mesi, e la drammatica fuga da Roma” (p. 5) per tentare, con il marito e uno sparuto gruppo di legionari, di raggiungere Venezia dove Manin teneva alto il vessillo della rivoluzione mazziniana. Il problema essenziale che Salera si pone è, al contrario, la ricostruzione delle fasi della fuga e, soprattutto, scandagliare, alla luce di un’organica documentazione, gli ultimi momenti di vita della donna, al fine di mostrare che le tesi della storiografica ufficiale non reggono: Anita potrebbe essere stata assassinata da uomini appartenenti agli stessi ambienti liberali, che aiutarono il marito nella fuga.
Il libro si sottrae ai consueti canoni della trattatistica storica, nell’intenzione di coinvolgere il lettore nel narrato, che ha il tratto delle spy story. Pochi i protagonisti del giallo che Salera, con tratti vividi, mette in scena: Garibaldi e Anita, l’aiutante del generale, tale Giovanni Battista Culiolo, detto Leggero, e l’ambiente formato da cospiratori e liberali che, via via, aiutano i fuggitivi nei loro spostamenti. Infine, le povere famiglie di contadini e pescatori che ospitano il gruppo legionario. Antecedente storico di rilievo, a sostegno delle tesi revisioniste che emergano nel volume, va individuato nell’opera di Francesco Lemmi, studioso di fama che nel 1924, in Guida Bibliografica del Risorgimento, sostenne la necessità di diffidare del dilettantismo di molti interpreti ufficiali del Risorgimento, invitando ad avviare nuove ricerche su documenti prodotti nella provincia italiana. Quale, quindi, la ricostruzione dei fatti che il libro propone? E’ presto detto.
Mentre si è sempre sostenuto, alla luce di quanto scritto dall’ “eroe dei due mondi” nelle Memorie, che la morte di Anita era stata indotta dalle febbri malariche e dagli stenti del viaggio, Salera, rileggendo il referto del perito che eseguì l’autopsia sul corpo della povera donna, ricorda come questi avesse, in modo netto e chiaro, riferito di segni evidenti di strangolamento. Inoltre, osserva come il rapporto dell’ispettore di polizia pontificia, fin dall’inizio, parlasse con altrettanta evidenzia, di assassinio. Più nel dettaglio, l’ispettore Radicchi assicurava che il cadavere di Anita “appariva come quello di una donna strozzata[…] con la lingua di fuori, con gli occhi tumefatti e stravolti, e con i lividi in corrispondenza della trachea che possono formare le mani nell’atto del soffocamento” (p. 224). Il referto stabiliva, inoltre, che la donna era incinta da sei mesi. Il solerte funzionario pontificio, nel bel mezzo della delicata indagine, fu richiamato dal segretario di polizia Luigi Cesaretti, che proibì all’ispettore di proseguire le attività investigative. Ma dove sarebbe avvenuto il misfatto e perché? La scena del delitto va individuata nella fattoria del Marchese Guiccioli, noto liberale romagnolo, e sarebbe stato messo in atto da due fattori, i fratelli Ravaglia, nella cui abitazione Anita, Garibaldi e i legionari, furono accolti la sera del 4 agosto del 1949. Ad indurre all’omicidio, futili ragioni economiche: il furto delle ricche vesti, di oggetti preziosi e somme di denaro possedute da Anita. Nella casa sarebbe risultato presente anche il medico Nannini, patriota, chiamato per prestare le cure alla moglie del fattore, malata. Furono inviate agli inquirenti segnalazioni anonime accusatorie nei confronti dei Ravaglia, addirittura circolò una composizione poetica in tema, che trasformò la tesi dell’assassinio di Anita, in leggenda popolare. Furono arrestati i due fattori, ma presto rilasciati, in quanto i segni di soffocamento, dopo la destituzione dall’indagine dell’ispettore Radicchi, furono attribuiti alla decomposizione del corpo, che fu, come noto, ritrovato casualmente in località “La Pastorara”, il 10 Agosto, sotto un cumulo di terra da cui fuorusciva una mano.
Va ricordato che un altro ispettore di polizia, Zeffirino Socci, fu diffamato, al fine di impedirgli di portare a compimento l’indagine. Aveva, tra l’altro, raccolto testimonianze che parlavano di una possibile inumazione di Anita ancora viva. Garibaldi, in ogni caso e qualunque sia la verità sul drammatico episodio, si dileguò dopo la morte della consorte e mai fu inquisito. La conclusione cui Salera perviene, si fonda sulla convinzione che “La Repubblica Romana era stata sonoramente sconfitta militarmente, ma, civilmente, restavano intatti e quanto mai combattivi tutti i baluardi anticlericali che, manco a farlo apposta, in Romagna erano quanto mai virulenti” (p. 226). Il che spiegherebbe i silenzi e le connivenze di cui il gruppo dei liberali poté beneficiare. Su ciò si può convenire, ma poiché l’autore dichiara di ritenere attendibili “almeno al cinquanta per cento” i documenti su cui si fonda la ricostruzione, a giudizio di chi scrive, il libro è una godibilissima ricostruzione romanzesca di un episodio ancora controverso.