Ventun’anni e un ricordo. Un nome con cui fare i conti. Il 4 marzo 1996, alle 14.30, muore Angelo Massimino in uno schianto sulla Catania-Palermo, più precisamente tra Scillato e Tremonzelli. Rientrava dalla capitale siciliana. Si era appena incontrato con Mario Macalli, vicepresidente della Lega di C: l’ennesimo tentativo per risolvere la contesa con la Federcalcio di Antonio Matarrese. Il tentativo di radiazione del ’93 fu riconosciuto come un clamoroso atto d’ingiustizia, ma al Catania nessuno restituì il ritorno nelle serie che contano. Lui lottò fino alla fine per riparare il torto subito. Un sacrifico che lo ha reso agli occhi dei tifosi «Presidente per sempre».
Nel luglio 2015 il Guerin Sportivo inseriva Angelo Massimino al 64esimo posto della speciale classifica dei 100 presidenti migliori di sempre. Un riconoscimento rispettoso, doveroso, e – tutto sommato – equilibrato se ai primi posti ci sono i ben più titolati Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli, Moratti (padre e figlio) e Ferruccio Novo, il presidente del Grande Torino. Il «presidentissimo» ̶ così lo chiamavano in zona Cibali –, come gli altri presidenti del Sud, stanno dietro. Parecchio dietro. Non centra nulla il razzismo: è semmai questione di bacheche e risorse. E fin lì nessuno se la prenderebbe a male. Dà fastidio però la motivazione, che ancora risente di quella caricatura fornita degli «intellò» del pallone che lo rimpiangono soltanto per «l’amalgama», «l’io può», e altri tackle linguistici oggettivamente naif. Fermarci a questo, no: non si può. Non più, almeno. Massimino sapeva quanto facesse male il lavoro delle mani. Un selfmademan, uno di quelli che da giovane face un salto in Argentina per capire che consistenza avesse la calce e il cemento nell’emisfero australe. Una storia tra le tante, fatta di edilizia e migrazioni; ma in direzione opposta rispetto alle vicende milionarie dei campioni albiceleste passati anche da Catania.
Chi era davvero
Un uomo. Un leader, un po’ padre un po’ padrone. Decisionista, ovviamente. Uno di quelli che se lo incroci non te lo scordi più. «Vulcanico, battagliero, talvolta sgrammaticato», ce lo consegna così il nipote Alessandro Russo. «Ma non esiste una sola persona, anche fra quelli entrati nella sua rotta di collisione, che lo ricordi con negatività», spiega. Un’immagine ovattata? Non proprio. Chiamiamola pure operazione puntini sulle i. «Mio nonno si presentava sicuramente come uno che voleva spaccare il mondo, uno di quelli con le sue d’idee; ma dietro quella facciata impenetrabile c’era uno spirito costruttivo, dialogante. Che bisognava ovviamente prendere per il suo di verso, aspettare che gli passasse il nervoso, ma alla fine era un tipo tanto affidabile quanto diffidente verso chiunque».
Lungimiranza smodata
«Era capace di grandi intuizioni, ma non sempre capite, anche a causa della sua irruenza», dice Alessandro Russo. Parole che vengono del cuore, ma mediate da un’intelligenza chirurgica e annaffiate da una passione genuina per la storia del calcio. «Penso agli Anni ‘80, quando da paladino della città fu praticamente sbranato dalla stampa locale. C’è che durante un Catania-Lazio impedì a un cameraman di riprendere la partita. Finì a spintoni, denunce e addirittura a un arresto in flagranza di reato. La verità è che prima di altri capì che i diritti televisivi andavano monetizzati. Ecco tutto. Sbagliando nei modi, ovviamente, ma aveva ragione lui». Anni dopo arriveranno i diritti tv, Tele Più, Sky e l’invasione milionaria del calcio inglese.
Invadenza
Gli piaceva dire la sua. Far sapere le sue idee anche in tema di tattica. Inopportuno? Sì, ma non gli importava. Lo conferma anche il nipote: «Gli è capitato talvolta di sussurrare la formazione agli allenatori. Salvo Bianchetti racconta di quando, una volta a Palermo, mio nonno disse apertamente a tavola che Orazio Russo doveva giocare sempre. Il motivo di questa invadenza è che credeva tantissimo in quel ragazzo campione di catanesità. Massimino era un paladino di quei valori». Aneddoto simpatico, ma non bello, che ci dice come tutti «quegli allenatori o direttori sportivi che volevano volare troppo altro, con lui entravano in rotta di collisione».
Gli affetti
In famiglia era come allo stadio? «Mettiamola così, era il nonno che non chiedeva, ma sapeva tutto di tutti e ci sfotteva. Incuteva un certo timore e anche se non lo vedevamo giornalmente, sapeva essere affettuoso e presente. La domenica ovviamente era un giorno tabù. Usciva la mattina presto per andare allo stadio e controllare tutto».
L’antipatico
Presidente e non solo. Il Cibali era casa sua, davvero. «Aveva la fissa delle maschere. Per anni a Catania funzionava che la gente riuscisse attraverso amicizie a entrare gratuitamente allo stadio. Sia chiaro, non spendere una lira per molti significava non un risparmio, ma uno status di “spacchiosità”, un fatto da raccontare. A lui sta cosa dava un fastidio incredibile e si metteva personalmente a controllare che ognuno facesse regolarmente il suo mestiere. Inoltre, godeva tantissimo nel non fare entrare allo stadio quei giornalisti che in settimana avessero scritto male di lui. Chiaramente è un errore, però ci dà la misura del personaggio e della passione totale che aveva per la sua opera».
Amore e Odio
In vita, i tifosi l’hanno vituperato, l’hanno anche aggredito fisicamente. Ma con la sue morte è cambiato tutto. Al funerale c’erano 5000 persone, alcuni di loro hanno portato la bara in spalla fino al cimitero. La curva, oggi, scandisce un coro che si spiega da solo: “Un presidente, c’è solo un presidente”. Si riferiscono a lui, ovviamente. Come si spiega questa nemesi? «La città di Catania – spiega Russo – non conosce mediazioni, ed è capace di far passare un uomo dall’altare alla polvere nel giro di poco. Quando era in vita, in molti non hanno capito come la squadra fosse davvero la sua vita. Solo dopo i tifosi hanno avuto modo di comprendere meglio la sua persona. E nel capirlo, hanno messo a fuoco la sua grande ambizione quello di poter competere a testa alta con le grandi. Era convinto che la città avesse tutte le carte in regola per farlo, immaginando un riscatto nazionale che fosse per tutta la città».
I “colletti bianchi”
Se c’è una Catania che lo ama, ce n’è un’altra che rifugge dal suo nome. «I colletti bianchi, sicuramente. Quelli che attraverso i social si permettono di scrivere che gli attuali mali del Calcio, in fondo, per lui erano pane quotidiano. Fesserie! Paragoni ingiusti!». Una disputa aperta che a Catania è diventata a suo modo monumentale: «Ma è un altro – spiega Russo – l’episodio che mi ha turbato ed è legato al murales dedicato a Candido Cannavò. Alcune frasi dette in occasione di quell’inaugurazione sono irreali. Ho letto le parole del figlio del direttore della Gazzetta dello sport e quando dice che suo padre, a differenza di Massimino, lottava per la giustizia mi lasciano assai perplesso. Non è una buona sintesi la sua. Lo sarebbe stata se avesse detto che due grandi catanesi, coinvolti entrambi una vicenda importante, non si sono compresi reciprocamente». Così è necessario fare un salto al 1993: «Allora la Gazzetta si sbilanciò contro quel “bislacco” di Massimino senza conoscere pienamente i fatti. Sarebbe bastata una pausa di riflessione, uno studio maggiore della questione, per comprendere cosa stesse accadendo realmente. Il buonsenso avrebbe voluto che si ascoltassero entrambe le parti e non solo quella di Matarrese. La verità è che allora si tentò di punire i ritardi del presidente mortificando una città intera. Molti catanesi ancora oggi non comprano la Gazzetta, memori di quelle posizioni».
“Pulvirenti vattene”
Tra Nino Pulvirenti e Angelo Massimino è possibile un paragone? «Proprio no, ogni personaggio è figlio del suo tempo. Sono due epopee diverse, con due palmares differenti. Il “Pulvirenti vattene” di oggi è figlio del risentimento, è chiaro. Lui ha commesso un errore quando ha detto che a Catania non era possibile fare calcio e per questo fosse necessario andare per le vie illegali. E questo non lo si può dimenticare, neanche sforzandoci». C’è poi che la storia non si fa né con i se né con i ma. Alessandro Russo ci tiene a farlo sapere, anche se la nostalgia sussurra ben altre valutazioni: «Oggi il calcio è televisione, fatturato, è mi viene difficile estrapolare la figura di Massimino e portarla in quest’epoca. C’è però che con lui il Catania non è mai stato mai coinvolto in illeciti. Mai». E se c’è oggi chi vede nel presidente del Sampdoria, Massimo Ferrero, un erede iconografico del Massimino che fu, arriva Alessandro Russo a bloccare ogni confronto: «Non credo che mio nonno debba avere un erede. E poi, mi risulta che Ferrero abbia di recente parlato malissimo di Catania… Beh, per me il discorso è chiuso».