Che fine settimana. Tante cose sono successe, non tutte sul campo. Ma chissenefrega. Abbiamo salutato i primi cinquant’anni di Roby Baggio, il mito più bello e incompiuto del nostro calcio. Abbiamo salutato il ritorno di Zeman, sfavillante in cinque pappine che fanno risorgere (o almeno in Abruzzo lo sperano) il derelitto Pescara. Ci accontentiamo di poco, in fondo. Se poco vi pare lo stupore davanti a un’azione da un capo all’altro del campo, o a un gol di classe, estorto con un sol dribbling al volo, per esempio.
Secondo il regista e scrittore Giuseppe Sansonna lo stupore che da ciò deriva, assistere a qualcosa di eccezionale e non programmato, sbirciare nell’au-delà del calcio. Questo è il fascino immortale dello sport nazional-popolare per eccellenza.
Roberto Baggio ha spento cinquanta candeline.
“C’è un’immagine, un fotogramma che lo descrive al meglio. Siamo ai supplementari contro la Francia, ai mondiali del ’98. Baggio in area si gira e tira in porta, la palla per pochissimi millimetri non entra. Bruno Pizzul, con la sua inconfondibile voce, riesce a commentare solo dicendo “Ehhhh”. Sarebbe stato il golden gol che ci avrebbe concesso di battere i padroni di casa. Sarebbe stato il colpo di spugna definitivo sul rigore sbagliato a Pasadena. Non andò così. Questo è stato Roberto Baggio, un grandissimo. E incompiuto”.
In che senso? L’aritmetica dei titoli forse lo penalizza?
“La storia di Roberto Baggio è quella di un campione fragile, penalizzato dagli infortuni. Già da giovanissimo. Ammise sempre di giocare patendo dolore. E poi quella difficile vocazione a essere una splendida monade. Anche se, bisogna dirlo, ha saputo prendersi la responsabilità di caricarsi la squadra sulle spalle. Come a Brescia, lontano dal cinismo degli allenatori gestori, lontano dalle pressioni massacranti della metropoli, quando incontrò un allenatore che seppe volergli bene come Carletto Mazzone”.
Quando andò al Brescia lo diedero per finito…
“…e lui ripagò la fiducia di chi aveva creduto in Roberto Baggio con delle gemme indelebili. Penso al gol contro la Juve, su lancio lungo di Pirlo, a tre minuti dalla fine. Stoppa il pallone, dribblando contemporaneamente il portiere Van der Sar, e segna. È qualcosa di eccezionale, ci vuole più tempo a raccontarlo che a farlo. È intelligenza pura. Siamo nell’au-delà del calcio, nell’imponderabile e indescrivibile bellezza di questo sport”.
La magia del pallone non è quella delle statistiche, delle heat-map, delle percentuali, dei conteggi che esorcizzano i gesti tecnici e le partite. Forse è per questo che in tanti si rimpiange il calcio “di una volta”.
“In “Che cosa sono le nuvole?”, episodio di “Capriccio all’italiana” girato da Pierpaolo Pasolini e interpretato da Totò e Ninetto Davoli c’è una scena che spiega benissimo questo concetto. Quando Otello-Davoli cerca la verità e Totò-Jago gli consiglia di guardare dentro di sè. E poi lo ammonisce: “Non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più”.
Il fascino del calcio sta nella sua magia e non nella cosmesi, negli imbellettamenti. L’inspiegabile è che fai un gol e non sai raccontarlo perché mentre segni stai sulla Luna, come mi disse qualche tempo fa un altro grande bomber del calcio italiano, Igor Protti. Zeman, in questo, è uno stregone. Lui lavora alla preparazione di quella magia, e se non ha talento in squadra lo crea con la cultura del lavoro”.
A proposito di imponderabile, Zeman è tornato.
“Sembra che sia tutto sia accaduto come per magia. Questo Pescara già gli assomiglia. Cerri pare già un calciatore zemaniano. E poi c’è Caprari che è una creatura di Zeman”.
Anche per il Boemo la provincia è la terra del mito?
“Zeman è un allenatore che ha bisogno di emozioni fortissime. Nonostante la corazza gelida che s’è costruito attorno, apparentemente algido e inappuntabile. Ha bisogno di sentire il pubblico esaltarsi, ha bisogno di tutto questo. E ha bisogno del mare. Questa è la costante del suo peregrinare per l’Italia”.
Chissà se si fossero incrociati, Zeman e Baggio…
“Sono convinto che tra di loro ci sarebbe stata sintonia. Zeman non è e non è mai stato un algido amministratore di spogliatoio, è lontano dalla figura di allenatore-manager-gestore. Lui è uno che ancora oggi vuole insegnare calcio ai ragazzi, vuole aprire un dialogo senza scimmiottamenti né ipocrisie finto giovaniliste. Lui assume su di sè una sorta di responsabilità paterna vera e non gioca a far l’amico dei suoi. Sente la responsabilità di un dialogo anche tra le generazioni, cosa di cui ormai non importa più a nessuno e perciò viviamo in un’epoca di scontro intergenerazionale sanguinoso.
E poi c’è da ricordare che Zeman lo stimava tantissimo. Secondo lui il calcio italiano ha avuto tre grandissimi talenti: Gianni Rivera, Roberto Baggio e Francesco Totti”.
Totti, quello che pare sempre lì, vicino al ritiro, e poi rimane a tirare calci a un pallone…
“Vive nell’eternità del presente. La sua figura si sta trasformando in quella epica-pop dei film di Bud Spencer. In stile Bulldozer, per intenderci. Ricordate? Il grande campione ormai lontano che rientra in gioco e vince da solo le partite, riscattando l’onore dei suoi. Ecco, così andrà per Totti. E giocherà così fino a sessant’anni”.