Ripartire dai temi quali il lavoro, la famiglia, la sacralità della vita e la sovranità nazionale è il messaggio che Marcello Veneziani (Presidente del «Comitato Scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale») ha lanciato a Custonaci. In una notevole cornice di pubblico si è svolta la tradizionale «Giornata Tricolore» organizzata, come di consueto, dal «Centro Studi Dino Grammatico» e che ha visto protagonisti nel passato altri intellettuali del calibro di Pietrangelo Buttafuoco. Nel merito è stata una conversazione a 360 gradi quella che Veneziani ha voluto affrontare con il pubblico presente. A partire dal ruolo dell’Italia in Europa, sottolineando il peso del debito sovrano sulle prospettive di sviluppo. Ciononostante ha più volte rimarcato, nel corso dell’intervista, un ottimismo che a suo dire consentirà all’Italia di superare questa stagione caratterizzata dall’assenza di politica, ma fatta solo da quattro leader come Renzi, Grillo, Salvini e Berlusconi. Bisogna per Veneziani dare, infine, una maggiore attenzione alla cultura come punto di partenza per rilanciare anche l’economia e riportare l’Italia dove merita. Seguono, pertanto, alcune parti del suo intervento che appaiono interessanti per approfondire alcuni temi di grande attualità.
Hai intitolato il tuo recente libro «Lettera agli italiani», ma gli italiani, nel senso più nobile del termine, esistono ancora? O, invece, il declino della nostra Nazione a cui assistiamo quotidianamente è ormai irreversibile?
“Gli italiani esistono ancora? La mia idea è che esiste un’identità italiana forte e tenace, ma è sommersa. Nel senso che gli italiani, da un verso, spesso si vergognano di essere italiani e, dall’altro verso, si sentono più contemporanei che italiani. Più nativi digitali che nativi della propria Patria e, soprattutto, hanno avuto, negli ultimi anni, delle esperienze drasticamente negative, che li hanno portati, da un verso, ad essere diffidenti nei confronti della politica e, dall’altra parte, scottati anche dall’antipolitica. Perché se consideriamo l’esperienza disastrosa dei tecnici, se pensiamo anche all’esperienza velleitaria dei grillini, abbiamo l’idea che questo Paese abbia perduto la speranza di poter essere guidato. Bisogna anche dire un’altra cosa, che da anni noi viviamo nella retorica della indegnità della classe dirigente. In realtà dovremmo comprendere che questo Paese ha la classe dirigente che si merita. Nel senso che la classe dirigente rispecchia la media del Paese. Possiamo anche aggiungere che da una classe dirigente magari ci si aspetta la responsabilità di guidare il Paese un po’ meglio. Però se dobbiamo essere impietosi dobbiamo dire che gli italiani, nonostante il loro esercizio di massa, che poi è un esercizio auto-assolutorio, di scaricare le responsabilità del fallimento del Paese solo sulla classe dirigente, sono in realtà anche loro parte in causa. Detto questo però io credo che questo Paese viva da secoli, forse da millenni, la convinzione di essere morto. Noi abbiamo una letteratura della morte d’Italia che precede anche la nascita dello Stato italiano e questo, da un verso, ci può portare allo sconforto, dall’altro però il fatto che conviviamo da secoli con questa idea vuol dire che in fondo del tutto morti non siamo. Perché ci sono ancora delle possibilità, delle risorse che dobbiamo cercare per risvegliare, resuscitare il nostro desiderio di italianità. Ovviamente non sono venuto qui a dispensare illusioni. So qual è il quadro del Paese. Lo vivo ogni giorno. Lo maledico ogni giorno. So che ogni giorno c’è il desiderio di andar via da questo Paese. I ragazzi lo fanno sul serio, ma anche gli adulti, quelli più maturi, ci pensano ogni giorno. So qual è il quadro della situazione. Però io dico un’ultima scommessa conviene tentarla, perché da una parte il nostro Paese ha delle eccellenze che non possono essere messe in discussione, mentre, dall’altra parte, credo che il tentativo di non adeguarsi al declino, ma di resistere sia un’esigenza biologica prima ancora che politica e culturale. Quindi perché dobbiamo dire che l’Italia non c’è più o che gli italiani non esistono più? Accettando questa sorta di funerale permanente? Perché non tentare la strada opposta? E allora nonostante tutti gli indicatori dicano che il nostro Paese stia andando verso la sua scomparsa e che gli italiani stiano sparendo. Nonostante questi indicatori, io credo che si debba tentare un’ultima sfida che è quella di rigenerare il Paese. Rigenerare la politica del Paese. Ritentare di individuare una classe dirigente fondata sui criteri di meriti e di capacità e tentare un’ultima sfida. È questo che mi porta ancora a dire che dobbiamo continuare a sperare nella politica. Nella convinzione che la politica in questo momento in Italia sia stata sospesa. Io ho l’impressione che oggi non c’è nessuna forma di politica in Italia. Vi sono solo quattro grandi animatori del «villaggio Italia», che sono nell’ordine Renzi, Grillo, Salvini e Berlusconi (in quanto decano degli animatori), ma non c’è una politica. Non ci sono movimenti politici. Non c’è passione ideale e civile. Non c’è militanza e se può confortare, o sconfortare secondo i punti di vista, il problema ed il travaglio che vive la Destra è lo stesso che vive la Sinistra. Nonostante stia al Governo, nonostante abbia un leader vincente. In realtà è il leader che vince non la Sinistra. È la sua capacità illusionistica straordinaria di affabulatore e d’intrattenitore eccezionale e porta un risultato politico notevole, ma la politica in sé non c’è più. Perché la politica è stare insieme fare comunità, avere una storia politica. Avere delle culture politiche, cioè mancano tutti gli ingredienti per parlare di politica. Ci sono soltanto quattro leader politici, che fanno una specie di selfie permanente con il Paese. Quindi è la politica che va rigenerata, rifondata ed io dico che è stata sospesa, perché non voglio dire che è finita. Bene o male esiste un personale politico latitante o sommerso in attesa di un ritorno in politica, che sta cercando, diciamo, di capire l’evoluzione di questo Paese. Però io credo che piuttosto che consegnarsi subito al disarmante risultato che il Paese è finito, credo, che sia utile provare un’ultima scommessa, cioè quella di fare rinascere il Paese”.
Nel contesto di una «Giornata Tricolore», come la nostra, mi viene spontaneo chiederti se ha ancora un senso parlare di Destra politica in Italia? Pietrangelo Buttafuoco, qui a Custonaci, ha definito il nostro mondo «destrutto», ci sono le condizioni per far rinascere un partito di Destra, magari attraverso una piattaforma programmatica-culturale che, ad esempio, anche la Fondazione di AN potrebbe promuovere?
“Io credo che esista nel nostro Paese un’opinione pubblica che possiamo approssimativamente chiamare di Destra e che è ancora presente. Non dirò che è prevalente. Non dirò che è la maggioranza silenziosa del Paese, ma è presente. Ed è presente però su temi, non su questioni puramente politiche o di leadership politica. Per esempio sul tema della famiglia, per esempio sul tema della sovranità nazionale, per esempio sul rapporto con l’Europa, per esempio sulla salvaguardia di alcune tradizioni. Ecco io credo che ci sia nel Paese una Destra. Solo che è una Destra impolitica, cioè una Destra che non fa politica, che quando deve tradurre la sua opinione preferisce o disperderla nel dissenso tra i grillini, nel non voto, nel voto frammentario, nel voto a soggetti di passaggio (l’ultimo dei quali è Salvini), ma esiste nel nostro Paese un’area d’opinione che si può recepire come di Destra. Tra uno dei pochissimi segnali di questo anno così povero di eventi civili, per esempio, la manifestazione dedicata alla famiglia, il 20 giugno a Roma, è stata una manifestazione non politica. Non legata alla Destra. Non legata ai cattolici inteso come movimento politico e neanche come gerarchia, ma c’era un’Italia costituita da un milione, un milione e mezzo di persone, che non aveva i mezzi del grande sindacato, del grande partito o del governo a disposizione e che si è autoconvocata. Una specie di CoBas della politica, o meglio neanche della politica, della politica famigliare dei temi civili. Quindi come esiste un’area d’opinione che ritiene che sia fondamentale che il nostro Paese debba adottare uno Statuto speciale di difesa dei trans, dei gay. C’è un’altra Italia, che permettetemi, almeno con pari dignità, che può essere rappresentata a livello politico su temi, ma non solo su questi temi, ma anche sulla sovranità nazionale. Su temi, come dire, di un certo protezionismo nei confronti del prodotto italiano rispetto alle invasioni del sud-est asiatico o rispetto alla influenza coloniale di alcuni paesi. O riguardo alla politica estera, ovvero alle necessità di avere un soggetto Europa forte a livello di politica estera. Ecco esiste questa area d’opinione che oggi, magari simpatizza in prevalenza per Putin piuttosto che per Obama, che si ritrova con simpatia a caldeggiare per le elezioni in Francia per Marine Le Pen. Esiste un segmento del 20/25% degli italiani che non è rappresentato politicamente. Quindi il problema è trasformare un’area di opinione, e di sensibilità, in un fatto politico e avendo poi l’esempio che dieci anni fa quest’area esisteva. C’era un partito che mi pare chiamato «Alleanza Nazionale». Io credo che ci siano le potenzialità piuttosto che giocare sempre con l’idea che ormai è finita. Noi diciamo che è un’ipotesi probabile che possa essere finito tutto. Però visti questi parametri. Vista la realtà di questo Paese si può pure ritentare questo discorso, ma partirei dai temi piuttosto che dal raccattare i colonnelli di un’esperienza ormai finita e malriuscita o magari rimettere i cocci infranti di un partito che non c’è più. Ripartire da questi temi credo che possa avere delle possibilità e strada facendo individuare coloro che sono i più convincenti interpreti”.
Per tornare agli italiani secondo te cosa riserva il futuro, in un contesto globale, per la nostra amata Patria? L’Europa sembra essere in affanno rispetto alle imminenti sfide oltre ad essere ormai sentimentalmente lontana dai cuori di tanti cittadini europei.
Il fatto è che oggi l’Europa è quella bandiera con tante stelle intorno e con il nulla al centro e che i cittadini europei siano considerati dall’Europa non come compatrioti o connazionali, ma semplicemente come utenti, consumatori e soprattutto debitori. Perché il debito pubblico è l’unica forma di collante dell’Europa. Oggi, infatti, non c’è più la sovranità politica, la sovranità nazionale, la sovranità economica, ma c’è una nuova espressione il «debito sovrano», cioè, come a dire, che l’unica cosa che ci unisce è che dobbiamo pagare, perché abbiamo da scontare un debito che abbiamo ereditato dalle precedenti amministrazioni. Quindi il tema è quello. Cioè il tema è che c’erano due modi per fare l’Europa: un modo era quello di mettere assieme, integrare le Nazioni, facendo nascere un grande soggetto internazionale, con un’unica politica estera, un unico esercito, un’unica strategia internazionale, con differenti modelli interni secondo i sistemi economici, condizioni di vita, eccetera. Noi, invece, abbiamo fatto il contrario. Abbiamo unificato i sistemi economici, unificato la moneta, creato un’unica Europa anche quando le velocità erano diverse e, invece, non abbiamo unificato la politica estera europea, la strategia internazionale e le forze militari. Di conseguenza viviamo il paradosso di un’Europa che tanto è aggressiva nei confronti degli Stati membri e dei cittadini europei sul piano fiscale, sul piano delle norme, sul piano dei regolamenti. Quanto è evanescente sul piano della difesa degli europei fuori l’Europa. Ecco l’esempio dei due marò è uno dei tanti. Un altro esempio sono i flussi migratori dove c’è stato per anni uno scaricabarile. Non è competenza nostra. Noi abbiamo già dato. Son fatti nostri. Noi chiudiamo le frontiere. Schengen fino ad un certo punto. Quindi voglio dire questa Europa è nata al rovescio. Ed è nata al rovescio anche in tema diciamo di identità, perché un’Europa che esiste e che si rispetti deve partire dalla sua identità. E la sua identità nasce da quella triplice radice che è greca, romana e cristiana. E non possiamo farne a meno, perché sono quelle le radici della polis e della città e, quindi, della politica, della democrazia e della nostra cultura, diciamo sociale, della civiltà giuridica e, quindi, del diritto romano, dell’impero romano, della storia di Roma e dell’integrazione dei popoli e siamo figli della civiltà cristiana. Questa Europa ha inteso, invece, fin dall’inizio, fin dalle sue origini non fare alcun riferimento ai suoi tratti identitari e quello che sembrava solo un esercizio teorico si è rivelato poi un errore politico, perché di fatto siamo indifesi, siamo sguarniti nella politica estera, nella difesa dai fondamentalismi internazionali o dal fanatismo dei terroristi. Non siamo in grado di fronteggiare nulla, perché abbiamo creato un’Europa su basi che non sono quelle propriamente europee e da qui la convinzione che magari questi episodi esagerati di fanatismo possano suscitare per reazione un desiderio, come dire, di identità. Il pericolo, infatti, che corre la nostra civiltà alle volte può farci riscoprire anche le minime tradizioni. Come dire caserecce, domestiche come quella del presepe, ad esempio, può diventare un segno di identificazione. Non solo di un valore di un ricordo, di una memoria, ma anche proprio di un’identità condivisa. Quindi alle volte può nascere da queste cose un richiamo all’essere europeo. Quindi diciamo è più europeo il presepe che il consesso di Bruxelles. Quelle stanze anonime in cui si svolgono gli incontri in Europa rappresentano meno la vita, l’umanità europea rispetto a quei simboli che sono stati, e sono ancora, i simboli della tradizione europea.
La tua attività giornalistica è legata anche ad uno dei periodi più travagliati, quanto poco conosciuti, della storia recente della nostra Patria. Mi riferisco, in particolare, alla vicenda ormai ricordata da tutti come la «Crociera sul Britannia», che, se non mi sbaglio, ha dato il via al declino della nostra sovranità nazionale?
Quando noi pubblicammo per primi la vicenda del Britannia, cioè dal fatto che sullo yacht di Sua Maestà la Regina (cioè su uno yacht che batteva bandiera britannica) si svendevano pezzi cruciali della vita pubblica, delle aziende pubbliche italiane. Ecco quando pubblicammo questa cosa ci fu prima un imbarazzato totale silenzio. Io vi debbo anche dire una cosa, che a quel tempo «L’Italia Settimanale» aveva una visibilità pazzesca, cioè ogni cosa che pubblicavamo andava su tutti i giornali, le copertine riprese eccetera. Su quella vicenda silenzio totale. Poi dopo un paio di settimane sui principali giornali economici, e non solo italiani, e sul «Corriere della Sera» vennero giù intere paginate sulla vicenda del Britannia (senza mai citare la fonte, cioè «L’Italia Settimanale») e avevano concluso che si trattava di una cosa di ordinaria amministrazione. Uno scambio di idee avvenuto a bordo. In cui però venivano praticamente confermati tutti i dettagli, tutti i presenti e tutti i temi che erano stati trattati, dicendo che non era successo niente. Nell’arco di un anno successe tutto quello che era stato previsto. Cioè che furono privatizzati pezzi enormi d’Italia e scesero in campo personaggi, anche in politica non ultimo Prodi, proprio per realizzare quel programma ed altri personaggi decisivi come Draghi, che avrebbero fatto una straordinaria carriera a livello bancario e finanziario europeo. Quindi si crearono tutte le condizioni. In pratica è stata una delle vicende cruciali che hanno svenduto l’Italia, cioè la sovranità dell’Italia che nel 1992 veniva schiacciata. E questa è una ragione in più per spiegare quello che avvenne in quel periodo con la cosiddetta inchiesta di «Mani Pulite». In cui ci fu, è vero, da una parte un sistema esausto e corrotto e ci fu una parte d’Italia che voleva cambiare. Noi eravamo tra questi e quindi salutavamo con entusiasmo questo passaggio di consegne. Anche se nella vecchia «prima Repubblica» c’erano personaggi tutt’altro che disprezzabili. Ne cito uno Bettino Craxi che è stato l’ultimo grande politico che l’Italia abbia avuto, che però pagò nel 1992 Sigonella, pagò le privatizzazioni forzate, pagò diversi dazi. Dobbiamo riconoscere che mentre era necessario un ricambio, auspicabile dal nostro punto di vista, con la nascita della seconda Repubblica in cui finalmente entrava nel gioco politico la Destra, che era stata ghettizzata per decenni, però questo Paese assumeva una fisionomia preoccupante, perché si omogeneizzava all’Europa. Io cito il 1992 per non dimenticare, che non è solo la caduta della «prima Repubblica», ma è soprattutto Maastricht. Quindi voglio dire è un processo internazionale che ci tocca e ci stravolge. Noi abbiamo avuto una deviazione di percorso, che si chiamò «centro-destra», ma in realtà la strada segnata era quella. La deviazione fu la presenza di un efficace imprenditore comunicatore politico, che mise insieme leghisti e Destra e riuscì a creare quella coalizione che permise una deviazione di percorso. Non dico che invertì il percorso, perché non lo ha fatto. Tentò una deviazione di percorso, ma poi alla fine è tornato Prodi, è tornato Giuliano Amato, che era uno dei protagonisti di quei momenti. Ha avuto un ruolo importante, ed è diventato Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che fu uno dei precursori di questo passaggio. Tutte le figure che abbiamo trovato nel 1992 si sono poi ritrovate, puntualmente, nell’Italia della «seconda Repubblica».
* Presidente Centro Studi Dino Grammatico