Una tensione costantemente rivolta all’assoluto, ricerca desiderosa di guardare il caos negli occhi; sfida riordinatrice indirizzata allo sfaldamento esistenziale, ma pure agli Dei fattisi camerieri – troppo umani, deambulanti con vassoi di bontà in praline colorate – afflato, comunque, sempre coraggiosamente incline al superamento dei pragmatici disbrighi dell’infima vita comunemente intesa (“produci, consuma, crepa”), dei pusillanimi cedimenti materialistici all’andazzo generale. Così è se ci pare, ciò che ci sembrò d’intuire nella vicenda tutta metapolitica di Julius Evola, con particolare attinenza agli anni in Dada. Oltre – aprendo porte che è bene restino chiuse in questo contesto privilegiante l’estetica – non andremo, benché vi sia da segnalare un singolare parallelismo, apparente contraddizione nel giro delle avanguardie radicali primonovecentesche: il fondatore del Cabaret Voltaire, 1916 in Zurigo, Hugo Ball, passò anch’egli dagli atteggiamenti provocatori ed iconoclasti del dadaismo, all’adesione quasi monastica al cristianesimo bizantino. Capacitarsene è segno d’intelletto non sopito.
Curioso, dalle parole senza senso in collage, al rigore miniato del ritiro spirituale, dall’Anarchia di chiassosi bistrot neutralisti al silenzio ritirato della Tradizione, divenuta nel frattempo quasi incomprensibile ai più. Benché Evola avesse optato per una spiritualità eroica e romana, cardine attorno al quale far girare il (suo) ultra-mondo, risulta in entrambi i casi evidente il netto distacco dalle formule espressive – seppur mai rinnegate – degli avventurosi anni giovanili. Perché? Non tanto per l’aver messo la testa a giudizio, tant’è che s’inguaieranno ben più con le mistiche scelte mature, rispetto ai celebrati anni artistici eversivi in papillon; forse invece perché non fu davvero ben compreso lo spirito spiazzante e sprezzante del Dadaismo, nonostante una patina progressista, cosmopolita e pacifista, tutt’altro che innocuo per i desiderata dei valvassori conformisti. Poveri dadaisti, finiranno tutti in bianche gallerie nuovayorkesi, fecondando in quei luminosi cimiteri metropolitani il gusto degli anni a venire. Poveri anni a venire, giacché s’industriarono poi gli emuli. Difatti ancora siamo qui a far contrario del bello, convinti di essere stati designati ereditieri di una rivoluzione artistica morta suicida e sepolta dal denaro, quando in realtà desideriamo solo effimera notorietà. Con la differenza che la pistola del dadaista era puntata sulle proprie tempie, prima ancora che sul resto. Coraggio ne abbiamo? Se ne vede poco.
Aggiustandola col senno di poi, potremmo narrare della Via della mano sinistra, ovvero del compimento di un percorso spirituale au contraire, evocato attraverso l’elemento dionisiaco e dissipatore – “La strada dell’eccesso porta al palazzo della saggezza” (William Blake) – ma ciò porterebbe a virtuosismi esoterici meritevoli di più approfonditi studi. Emendiamo, consegnando la faccenda agli eruditi. Resta intonso l’equivoco quale potere fascinatorio, resta, postulando Majakovskij, “un flauto di vertebre” prima di far esegesi del peggio e natura morta del Kali Yuga. Dada nega e rinnega, ripudia progresso, pedagogie e vocazione a far proseliti: stessero a casa loro, zavorra di discepoli (per altro attorno a Evola sempre più numerosi dei lettori). L’esatto contrario della questua contemporanea riguardo al consenso. Noi non siamo più noi, parafrasando Gozzano, figuriamoci loro: si fottano. Musica, carne e parola s’aggrottano in posa nigredo, primo magmatico passaggio dell’Opera, laboratorio d’incontentabili in un secolo ancora giovane. Infatti la vita stessa del barone col monocolo, pare seguire la triplice mutazione che dal caos conduce alla perfezione. Per strada impervia, soprattutto a discapito del contesto, degli interessi contingenti e soprattutto del “sociale”, sempre aborrito. Nadir e Zenith, tutto il resto è scaffalatura Ikea per casa dei moderati. L’esperienza Dada di Evola, si pone quindi nell’ottica di una tabula rasa; non basta scagliare strali contro il povero ‘800 passatista, occorre demolire qualsiasi alternativa compromissoria, sicché merda a D’Annunzio, a Marinetti, agli intellettuali, ai Russi, ai cattedratici, al popolo quanto alla crema, allo Stato e alla Chiesa, ma soprattutto ai presunti sodali e infine a sé stessi. A tutti. Sublime sclerata Dada, oggi a maggior ragione inconcepibile, timorosi come siamo d’un falso autovelox in scatola d’alluminio. Dalla tessera punti del supermercato al bordo piscina Rotary, nuove ambizioni d’ammoscio collettivo. Dada proporrebbe un contrario qualsiasi, fuorché questo noioso asservimento.
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Perché poi, quante volte c’è toccato sentire, da destra a manca, il carillon oggettivo-fatalista del così deve andare? Ce lo chiede Dio, la Storia, l’Onu, la Nato, l’Europa, lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune, il Comitato di Quartiere, l’Assemblea di Condominio, sempre con quel ché di moralistico e pedante, implicito dovere d’asservimento ad una gerarchia burocratica formicolante e orante, meschino ordine da guardiani di giardinetti puliti – e delle periferie chi se ne cura? “metteremo le telecamere” – palliativi, aperitivi equosolidali, la strada delle riforme, esprimere massima fiducia nell’operato della Magistratura, in casa pattine per via del parquet… poi tutti fuori ad incendiare cassonetti: “hai fatto il video? Domani lo postiamo.” Inconcludenze funzionali, Ceci n’est pas dada, converrete.
Ecco dunque, il transito Dada di Julius Evola è fatto di Bleu (meraviglia le “Note per gli amici” su quella storica pubblicazione), composizioni poetiche come grimaldelli per scardinare il buon senso comune, di quadri astratti importanti oppure no, discernimento vincolato in parte all’apparato teorico talmente acuto, nella forma e nei contenuti, da risultare ancora oggi inclassificabile (se la firma fosse stata quella di Breton, scatterebbero inchini meccanici), in parte alla capacità di restare materia viva, non vincolata al pregiudizio ideologico, al criterio fazioso che tende ad appendere sempre la tela innocua, storicizzata, al chiodo dei muri migliori. Musei come obitori per necrofili, d’altronde. “L’atmosphère n’est plus la même. Qu’est-ce que vous voulez que ça me foute!”, rammentando i CCCP – Fedeli Alla Linea, qui assolutamente pertinenti nella similare ricerca di una mitologia ancestrale, seguente a tumulti anarcoidi. Il centro di gravità permanente cantato da Battiato, pure lui approdato alla sapienza dopo aver indagato, attraverso le sperimentazioni più estreme, l’alterazione della realtà. Oppure, citando l’artista contemporaneo Pablo Echaurren, che di Evola si occupò con un prezioso volumetto di cartoline illustrate: “In realtà ci furono anche Ezra Pound, Dino Campana, Evola dadaista e altri personaggi eterodossi. Mi hanno sempre attratto gli irregolari, i maledetti, i reietti. Quelli che fuoriescono dalle antologie lucidate, paludate e collaudate dagli addetti ai lavori. Detesto i manovratori della cultura. Per quanto posso, cerco di disturbare la loro guida a senso unico.” Appunto.