Fine intellettuale, profondo conoscitore di Dante, il poeta Harukichi Shimoi [nella foto] è sicuramente una delle figure più originali del variegato panorama fiumano. Nato nella provincia di Fukuoka il 20 ottobre 1883, appartenente ad un’antica famiglia di samurai, dopo aver ottenuto una laurea in anglistica presso la scuola magistrale di Tokyo, Shimoi si specializza in lingua italiana e intraprende la carriera cattedratica presso un locale liceo femminile. In seguito all’intercessione dell’ambasciatore italiano in Giappone, il marchese Guiccioli, Shimoi ottiene il trasferimento in Italia presso il Reale Istituto Orientale di Napoli. Qui, coadiuvato da Gherardo Marone e Vincenzo Siniscalchi, Shimoi intraprende una vasta opera di diffusione della poesia Giapponese, grazie soprattutto alle pubblicazioni partenopee La Diana e L’Eco della cultura. L’insegnamento e la collaborazione con gli orientalisti italiani cessa nel ‘18 allo scoppio della prima guerra mondiale. Venuto a conoscenza della costituzione dei corpi speciali, Shimoi si arruola volontario nell’esercito italiano e inizia ad impartire lezioni di Karate agli arditi.
Nell’atmosfera febbricitante delle trincee ha l’opportunità di conoscere Gabriele D’Annunzio, con il quale condivide, oltre che la passione per la poesia, anche la visione estetico-eroica dell’esistenza. A termine del conflitto, infatti, seguirà il Vate a Fiume, in qualità di ambasciatore. Al suo arrivo nella città occupata, Schimoi è accolto calorosamente sia dai legionari che dal Comandante che in suo onore pronuncia un discorso di fede e di augurio per l’avvenire luminoso del Giappone e per la resurrezione asiatica: «Vogliamo salutare a questa nostra mensa di guerra un messaggero del Sol Levante. (…) – Poi, riferendosi al Giappone; – Ecco che un impero quasi immobile (…) dà esempio inaudito d’una trasformazione che sembra una creazione del profondo.(…) Ordinati e serrati in unità impenetrabile, essi tendono non soltanto alla signoria dell’Asia ma dell’intero Pacifico. (…) Da Fiume d’Italia, porta dell’Oriente, salutiamo la luce dell’Oriente estremo dove, or è sette colli giunsero con lenta fretta i tre latini».
Discorso sicuramente enfatico, tipicamente dannunziano, ma dal quale si evince la volontà di esportare la causa fiumana al di là del continente europeo. Che D’Annunzio volesse intrattenere il maggior numero di legami diplomatici, questo è indubbio. Ed è in quest’ottica che deve essere analizzato il progetto del raidaereo su Tokyo, alla cui realizzazione parteciperà attivamente anche il poeta giapponese. Quest’ultimo, ottenuto il patrocinio del quotidiano Asahi Shinbun e l’avvallo di alcune sfere dell’aviazione italiana, organizza il raid intercontinentale, grazie soprattutto all’intervento di Arturo Ferrarin e Guido Masiero, quelli che saranno i protagonisti dell’impresa. Undici apparecchi modello SVA, prenderanno il volo da Centocelle la mattina dell’undici febbraio 1920. Dopo 26 durissime tappe, solo l’apparecchio di Ferrarin e Masiero, il 31 maggio, arriva a destinazione. Nonostante ciò, l’impresa ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica, portando anche a oriente l’eco delle imprese dannunziane.
Shimoi fu anche protagonista di alcuni alterchi fra il Comandante e il direttore de Il Popolo d’Italia, Benito Mussolini. D’Annunzio, in seguito all’assedio di Fiume operato dal maresciallo Caviglia, era rimasto isolato dal resto del mondo. L’unico in grado di entrare ed uscire dalla città, senza destare sospetti, risultò, paradossalmente, proprio Shimoi, per il suo aspetto ma soprattutto perché non s’era mai sentito parlare un giapponese in napoletano. Per tali peculiarità divenne il porta lettere ufficiale di D’Annunzio. Ha raccontato Indro Montanelli: «il Vate diede incarico ad Harukichi (che chiamava camerata Samurai) di portare i suoi messaggi al futuro Duce a Milano. (…) A furia di far la spola fra i due corrispondenti, il messaggero se n’ era guadagnata la fiducia e ne aveva raccolto qualche confidenza. I due, mi disse, non si amavano, anzi si detestavano, ognuno sospettando che l’ altro volesse rubargli la parte di protagonista. Per il Vate, Mussolini era nu cafone, e per il cafone il Vate era nu pagliaccio».
Sempre a Shimoi si deve l’interesse di Mussolini nei confronti della cultura del sol levante. E’ infatti il poeta giapponese a raccontare al futuro duce, la gloriosa epopea delle tigri bianche, i samurai fedeli allo Shogunato dei Tokugawa che, in seguito ad una sconfitta, dopo aver difeso strenuamente il loro imperatore, convinti della morte di quest’ultimo, praticheranno tutti il seppuku. In onore di questi guerrieri e alla loro fedeltà, Mussolini deciderà d’inviare in Giappone una colonna romana proveniente dal palazzo di Gneo Pompeo. Ai piedi della struttura, Mussolini fece installare una targa commemorativa recante la dedica: «Allo spirito del Bushido».
Nel ‘24, Shimoi torna in patria e diviene un accanito sostenitore del regime, rivelandosi, in breve tempo, uno dei migliori oratori del paese. La sua opera di propaganda nazionalista è stata spesso accostata a quella di D’Annunzio, allora molto stimato dai lettori giapponesi, grazie anche alla diffusione delle sue opere fatta da Shimoi. Il poeta muore nel 1954, dopo 71 primavere.