Va tutto bene. Anzi, no! Per decenni c’hanno ripetuto che le magnifiche sorti e progressive dei secoli illuminati c’avrebbero allontanato definitivamente dalla sofferenza, dalla malattia e perfino dalla morte. Bene, anzi male: perché non è così.
Non può essere così, per natura. Perché nel 2017, ma anche nel 2016, negli anni precedenti e – probabilmente – anche in quelli successivi, crisi e cataclismi continuano a sconvolgere il nostro mondo. Per non parlare d’altro. E l’uomo che pur “d’eternità s’arroga il vanto“, non riesce a farvi fronte, specie se davanti alla natura si ritrova da solo, come singolo individuo, privato perfino del fatalismo, oltre che del senso del sacro.
Guarda il terremoto d’Appennino, ad esempio. Al di là delle questioni tecniche, ingegneristiche e geologiche, ciò che balza all’occhio è l’approccio umano al distruttivo evento naturale. Diverso appare quello della gente di montagna, rispetto alle camarille degli azzeccagarbugli di pianura e di palazzo.
In questi giorni di decreti, regolamenti, norme attuative, appalti e subappalti, testi unici antisismici, regolamenti e leggi quadro, l’animo si riaccende nel leggere un termine, misterioso e definitivo: sa paradura. Un’usanza dei pastori sardi.
Sa paradura, in lingua sarda, designa un istituto antico, come le pietre del Supramonte, nato forse con la pastorizia stessa. Quando un pastore perde il gregge (e ciò può avvenire per vari motivi: calamità naturali, furti, malattie) gli altri pastori donano al collega una o più pecore (a seconda delle disponibilità di ognuno) offrendo così allo sfortunato allevatore la possibilità di ricominciare la sua attività senza che questi assuma alcun debito nei confronti dei donatori se non l’impegno morale di ricambiare il gesto in caso di necessità.
Ed ecco allora che Coldiretti Sardegna, le associazioni di pastori sardi e un gruppo musicale “speciale”, gli Istentales di Nuoro, hanno deciso di mettere insieme (parare,preparare da cui viene Paradura) mille pecore e portarle a Cascia, donandole agli allevatori umbri colpiti dal terremoto. Una solidarietà antica, già messa in pratica nel terremoto del 2009 a L’Aquila, dove Sa Paradura aveva portato 700 capi ovini.
Una solidarietà che va oltre la legge scritta, che è diritto naturale, per gente dura, abituata a fare da sola, gente che non ha creduto e continua a non credere al fatto che tutte le soluzioni possano arrivare dall’esterno. Perché anzi quando stai su un’isola (e anche la montagna d’Appennino è una specie di isola) dall’esterno spesso arrivano solo i problemi.
Un ponte lungo tra la Sardegna e l’Appennino terremotato (ben più di quello favoloso sullo stretto di Messina). Eppure un ponte che si regge su solidi pilastri, e condivisi. La pastorizia e l’allevamento nelle terre alte, innanzitutto, ma anche un analogo concetto di comunità e di solidarietà.
Perché se la Sardegna è la terra della paradura, la montagna umbro-marchigiana è la terra delle comunanze e degli usi civici.
Anche in questo caso gli uomini delle comunità della montagna, per far fronte alle difficoltà, lavoravano fianco a fianco e gestivano insieme (con forme di democrazia partecipata) pascoli, boschi e terreni seminativi.
Oggi le comunanze – come sa paradura – esistono ancora, ma devono fare i conti con una realtà diversa e perfino con i contributi UE della Pac.
Eppure in molti ne sentono ancora vivo lo spirito. E il dramma del terremoto potrebbe rivivificarlo ancora di più, come strumento e come simbolo.
Ed è proprio di questa cultura della montagna e di tutte le isole dove la terra è dura, che non si dovrebbe fare a meno, che non dovrebbe venire meno: è una miniera, un esempio, dal quale imparare per gestire le crisi giù a valle, riscoprendo spirito di comunità e virtù appenniniche, italiche (oltre che sarde!), proprio perché viviamo in un mondo in cui le sorti non sono né magnifiche né progressive, come aveva ben intuito un poeta che guarda caso era marchigiano…e per sopravvivere (perfino ai terremoti) servono gli attributi!