
‹‹Al Metropol? Dov’è sceso?›› ‹‹ Io?…In nessun posto››: frammenti di dialogo da “Il maestro e Margherita” di Michail Bulgakov.
‹‹Se solo fossi io là e lei qui›› sospirò. Era un lamento, pensò il conte, cui avrebbe potuto unirsi l’umanità intera: frammenti di vita dall’interno dell’Hotel Metropol di Mosca, convitato di pietra e decori del romanzo “Un gentiluomo a Mosca” di Amor Towles ( trad. Serena Prina, editore Neri Pozza, 2017).
Cosa sarebbe stato di “Un gentiluomo a Mosca” se Bulgakov non avesse scritto quello splendido e strampalato romanzo che è “Il maestro e Margherita”? E cosa, se non fosse stata già la danza della nobile Nataša di Lev Tolstoj metafora della vicenda storica di Santa Madre Russia? Il sospetto è che “Un gentiluomo a Mosca” non sarebbe stato. Debitore scoperto del capolavoro di Bulkagov e di una certa idea di Russia, il romanzo di Towles si mostra perfino ingenuo nel suo tributo alla letteratura, soprattutto russa, e a tanta filosofia francese (ai “Saggi” di Montaigne è data perfino la funzione di oggetto magico!). In cinquecentosessanta pagine lo scrittore statunitense Amor Towles racconta la vita di un uomo e la parabola di una società lasciando il lettore in affanno di senso. O a disincastrare matrioske di citazioni.

Come definire ”Un gentiluomo a Mosca”: un romanzo a tesi? Potrebbe esserlo. Un libretto d’opera? Suggerisce qualche movimento sinfonico. Una spy story? A un certo punto. Un romanzo di formazione con incursioni fiabesche? Meglio. ”Un gentiluomo a Mosca”, romanzo vanitoso per ampiezza e immagini, pone al centro il duello ideale tra Bulgakov e Tolstoj, che ispirano il personaggio principale e la garbata rappresentazione dell’imperialismo russo. Il protagonista Aleksandr Il’ič Rostov (reminiscenza da “Guerra e pace”) è un conte. Dell’aristocrazia incarna tutta la liberalità e l’eleganza del tatto e dei gusti. Colto, raffinato, viveur e anfitrione, Rostov è stato condannato agli arresti domiciliari “per il crimine di essere nato aristocratico”, per aver scritto una poesia rivoluzionaria e averla di fatto rinnegata nel tentativo di mettere al riparo dalla Rivoluzione beni e affetti. Prigioniero, per ordine dei bolscevichi -la storia comincia nel giugno del 1922 e si dipana per trent’anni- e per mappa genetica di classe “Sempre splendere, splendere ovunque, fino al profondo degli ultimi giorni”. Per anni Rostov si aggira liberamente per le stanze, le scale, i saloni, gli scantinati della sua prigione: l’hotel Metropol, un gioiello art decò piegato a ostello dei compagni della rivoluzione.
Qui il Conte Rostov declina quell’abilità propria del bel mondo di piegare a sé l’esistente e l’accidente, consacra l’immaginifico al pragmatismo e fa grande il piccolo, castello la stanza, mondo l’hotel.
“…non aveva l’immaginazione per le imprese epiche […] Come un Robinson Crusoe abbandonato sull’isola della Disperazione, il Conte avrebbe mantenuto la propria determinazione dedicandosi appieno alla questione della praticabilità”.
Saša Rostov domina il Metropol bolscevico nel segno del galateo e del cerimoniale, diventando primo cameriere per far foggia e sfoggio di tutta una malinconica Grandezza. Non si arrende al livellamento sociale ed estetico della Rivoluzione e dello Stalinismo (cui non riconosce neppure l’illusione ottica dell’imperialismo) ma con l’agilità dei rocamboleschi diavoli di Bulgakov decide molti destini e sopravvive al proprio. Di Woland e Azazel il conte conserva solo l’acutezza e l’ironia e…il gatto. Goffo nei passi e nei veri sentimenti, pudico nel coraggio, sottile nella parola Rostov assiste alla caduta degli dèi e matura un intento: salvarsi. Salvare in se stesso l’erede di un Impero regredito a sogno. Le pagine di Amor Towles impongono un’avventura e ne offrono gli ingredienti: dall’armadio magico di Alice e di Narnia, ai simboli mistogagici tutti saccheggiati da Bulkagov – oltre il gatto bislacco e inquietante anche i colori, il giallo dei vestiti di Nina e il nero dei capelli di Sof’ja- alle scene alla OO7 in cui Rostov comincia la sua attività di spia per trovare la libertà negli Stati Uniti per la figlia e per sé nell’anonimato del suo giardino delle mele a Nižnij Novgorod.
Il giardino nel 1954- sono le ultime pagine del romanzo- ha l’erba alta e gli alberi di mele sono striminziti. A voler essere sciovinisti nell’accettare il gioco delle citazioni, si ricordi a Towles che il giardino di Rostov sembra tanto la vigna del “nostro” Renzo: sterpaglie dell’anima e della storia. Così Towles, forse senza volerlo, consegna al pubblico americano il fantasma inquietante della reviviscente potenza russa e fa lo sgambetto a Nataša Rostova. L’eroina tolstojana con la sua istintiva adesione alla vita, con le inimitabili maniere russe cede al (pre)giudizio di Towles sulla Russia tradizionale che può essere raccontata con malinconia e mai con nostalgia. Con la malinconia delle parole del poeta Miška all’amico Rostov.
“In quanto popolo, noi russi ci siamo dimostrati insolitamente abili nel distruggere quello che avevamo creato […]Le nostre chiese, note nel mondo per la loro bellezza stravagante, per le loro spire dai colori brillanti e le cupole improbabili, sono da noi rase al suolo una dopo l’altra. Facciamo ruzzolare a terra le statue dei vecchi eroi e strappiamo via i loro nomi dalle strade, come se non fossero che fantasmi della nostra immaginazione. I nostri poeti li zittiamo, oppure aspettiamo con pazienza che si zittiscano da soli. […] Agli stranieri deve sembrare sconvolgente. Deve sembrare che noi russi siamo in possesso di una tale brutale indifferenza che nulla, nemmeno il frutto del nostro ventre, è considerato qualcosa di sacrosanto”
Sconvolgente per lo straniero Towles? Lo scrittore afferma di aver concepito questo romanzo a partire dalla passione per la letteratura russa e dalla convinzione che il presente sia distante da quella storia del XX° secolo e aggiunge “a reflection of a love of history, not a nostalgia for a bygone era”. Distante per Towles tanto da far dire ad Annuška, l’affascinante attrice inamorata di Rostov
“ Saša, so che non vuoi accettare l’idea che la Russia possa essere per sua natura introversa” e più avanti “Tutti sognano di vivere in America”. E a Miška:
“Sì, l’incendio di Mosca è stato particolarmente russo, amico mio. Su questo non ci possono essere dubbi, perchè non è stato un avvenimento a sè stante; è stato la forma di un avvenimento”.
Distante per la rappresentazione dell’hotel Metropol (il “nessun posto” di Bulgakov?) quasi la trasfigurazione della residenza dei Romanov, la sfarzosa corte di Zarske Selo. Sfarzosa e immobile, mentre la Russia esplodeva di rabbia e fame e si consegnava ai Soviet e alla persecuzione del Sacro.
In “Un gentiluomo a Mosca” lo Spirito Russo, nella sua fascinazione escatologica, si offre come scenografia al gran teatro della passione per la Russia del suo autore e all’eterno duello tra presente e passato, tra il Bene dell’Occidente e il Male dell’Oriente, tra le comodità moderne e l’eleganza rituale della tradizione. Un duello, appunto.
“…con tutta la loro inventiva, I maestri russi non sono riusciti a tirare fuori un artificio migliore, per modificare la trama, di due personaggi che risolvono una questione di coscienza con due pistole a trentadue passi”
L’autore. Amor Towles è nato a Boston nel 1964. Si è laureato a Yale e ha conseguito un dottorato in letteratura inglese a Stanford. È un grande appassionato di storia dell’arte, soprattutto della pittura di inizio Novecento, e di musica jazz. Vive a Manhattan con la moglie e i due figli. La buona società è il suo primo romanzo. Il blog è www.amortowles.com