La Rivoluzione di Febbraio è la prima fase della Rivoluzione Russa del 1917, che avrà compimento nell’ottobre dello stesso anno. Frutto della sollevazione, in parte spontanea, della popolazione e della guarnigione di Pietrogrado (la città di San Pietroburgo aveva cambiato nome a causa delle ostilità contro la Germania imperiale, data l’origine tedesca dello stesso), avvenute tra il 23 al 27 febbraio (secondo il calendario giuliano), provocò l’abdicazione dell’imperatore Nicola II, la fine della dinastia dei Romanov e dell’Impero russo.
La Guerra Mondiale aveva rivelato tutte le debolezze strutturali della Russia. Dopo tre anni, l’Impero aveva perduto la Polonia, la Lituania, la Bielorussia e parte della Lettonia e dell’Ucraina. Diciassette milioni di uomini sotto le armi, sottratti alla produzione agricola, mandarono in crisi l’economia nazionale, già in difficoltà per il basso livello tecnologico delle industrie e la scarsa estensione della rete ferroviaria. L’Esercito stesso, minato dalle gravi perdite subite, dalle diserzioni, dallo scoramento, dalle brutalità di molti ufficiali, riceveva meno della metà dei rifornimenti necessari in armi, equipaggiamenti e viveri, mentre nelle città si soffriva acutamente la fame.
Per garantire la produttività, l’orario di lavoro era stato allungato, ma i salari reali, per effetto dell’inflazione crescente, erano diminuiti, i consumi drammaticamente scesi e davanti ai negozi si facevano file di ore per acquistare pochi beni di base. Ripresero gli scioperi che assunsero sempre più un carattere politico e denunciavano il protrarsi della guerra, la corruzione dilagante, l’incapacità del Governo. Il discredito investiva in primo luogo i regnanti e la Corte. Lo zar Nicola II si mostrava inetto e rifiutava di prendere in considerazione qualsiasi riforma; la zarina Aleksandra, figlia del Granduca d’Assia, era sospettata di simpatie per la Germania ed appariva soggiogata dal monaco Rasputin, che presumeva di curare l’emofilia dello zarevic e che da anni imponeva la sua volontà persino nella scelta dei Ministri. Il suo assassinio, nato da una congiura di Palazzo, appoggiata e favorita dal Servizi Segreti inglesi, timorosi di una ritirata dalle ostilità della Russia, non mutò la politica del regime.
A Pietrogrado esistevano tre organizzazioni illegali: il Gruppo dei Socialdemocratici menscevichi, il Comitato bolscevico ed il Comitato interrionale dei Socialdemocratici internazionalisti, un gruppo dominato dai trockisti. Il 23 febbraio si sarebbe dovuta celebrare la “Giornata Internazionale dell’operaia”. L’eccitazione delle masse costrinse il Comitato ad interrompere la propaganda a favore dello sciopero. Tuttavia, in alcune fabbriche tessili le operaie scesero ugualmente in sciopero, chiedendo sostegno ai metalmeccanici. Il Governo si trovò impreparato a fronteggiare le dimostrazioni: apparvero le bandiere rosse e ci furono tafferugli con la Polizia. Sabato 25 febbraio scioperarono 250.000 operai, gli studenti, i trasporti pubblici; molte piccole imprese ed esercizi commerciali chiusero i battenti. I dimostranti invasero il centro della città. Come previsto, la Polizia prese a sparare, ma dalla folla si rispose al fuoco ed un commissario cadde ucciso. I soldati inviati a reprimere la manifestazione restarono passivi. Nemmeno i cosacchi si mossero, anzi in qualche caso intervennero contro la Polizia. Verso sera, dal suo Quartier generale, Nicola II telegrafò al generale Chabalov, comandante del Distretto militare, ordinandogli di “liquidare sin da domattina i disordini nella capitale” ed emanò il decreto di sospensione dei lavori della Duma.
Il 26 febbraio il Governò tentò di volgere la situazione a proprio favore. A Pietrogrado, presidiata dai militari, cominciarono le sparatorie contro la folla ed all’una del pomeriggio la “Prospettiva Nevskij” era coperta di cadaveri. La novità della giornata fu la ribellione di una compagnia del reggimento Pavlovskij, che sparò contro un reparto di Polizia impegnato nella repressione delle manifestazioni. Le Autorità mostravano ormai pessimismo, il popolo si andava convincendo dell’idea che era cominciata la rivoluzione, nell’impotenza del Governo. Il 27 gli scioperi continuarono. Gli operai di Vyborg, presso Pietrogrado, organizzarono comizi di fronte alla caserma del reggimento Moskovskij. Nel primo pomeriggio i soldati ed i civili, assieme, saccheggiarono l’arsenale. Furono liberati i prigionieri politici, date alle fiamme il tribunale, la prigione, la questura, la sede dell’Ochrana, la polizia politica.
I rappresentanti della borghesia liberale, temendo una vera rivoluzione, cercarono un accordo con la Monarchia e contattarono il Granduca Michele affinché assumesse la dittatura, costringesse il Governo alle dimissioni e chiedesse al fratello zar di formarne uno nuovo. Ma il Granduca tentennò e l’iniziativa fallì. Per non disobbedire all’ukaz dello zar, ed insieme non ignorare quanto stava avvenendo, i deputati della Duma decisero di riunirsi in assemblea. Il trudovico (laburista) Aleksandr Kerenskij si offrì di dichiarare agli insorti la solidarietà della Duma. Venne allora proposta la costituzione di un Comitato provvisorio della Duma, incaricato di “ristabilire l’ordine a Pietrogrado ed assicurare i rapporti con le istituzioni e le persone”.
Nello stesso giorno, nell’opposta ala del Palazzo di Tauride, già sede del primo Parlamento russo, nasceva il Soviet pietrogradese. Il Soviet si dotò subito di un giornale, le Izvestija, che nel primo numero indicò a compito fondamentale del Soviet «organizzare le forze del popolo popolari e lottare perché siano definitivamente assicurate in Russia le libertà politiche e la sovranità popolare, la completa eliminazione del vecchio regime e la convocazione di un’Assemblea nazionale costituente eletta sulla base del suffragio universale uguale, diretto e segreto». Il 28 febbraio soldati ed operai armati raggiunsero l’isola Vasilevskij dove il 180º Reggimento fanteria Finlandia si unì alla rivolta. Anche i marinai della flotta del Baltico passarono con i rivoluzionari.
Mentre anche Mosca insorgeva, senza che i rivoltosi incontrassero resistenza, a Pietrogrado la sovversione si rafforzava; i dirigenti menscevichi e socialrivoluzionari del Soviet di Pietrogrado decisero di affidare tutto il potere politico al Comitato Provvisorio della Duma. A rinunciare al potere che pure era stato concesso al Soviet – i soldati insorti e la massa della cittadinanza avevano dimostrato di fare affidamento sull’organizzazione popolare dei rappresentanti delle forze armate, delle fabbriche e dei partiti politici – fu soprattutto la considerazione che, dovendo la rivoluzione liquidare i residui feudali ed introdurre nella società la libertà politica e l’eguaglianza di tutti i cittadini, negate dall’assolutismo zarista, un governo espressione della borghesia fosse il più idoneo a reggere le sorti della nuova Russia. Così si comprende pure l’insistente tentativo del Comitato di salvare la Dinastia zarista.
A giudizio di Trockij, il paradosso costituito dalla consegna del potere ai rappresentanti dell’alta borghesia si spiegava con l’innato servilismo della piccola borghesia, rappresentata dai dirigenti del Soviet, e gli argomenti dottrinari utilizzati per giustificare tale scelta – la rivoluzione “doveva essere borghese” – erano solo “una compensazione della coscienza della propria nullità”. Vi era infatti, secondo Trockij, il timore del potere, la sfiducia nel sostegno che le masse popolari gli garantirebbero. Il Comitato della Duma contava in quel momento sul mantenimento della Monarchia con la successione al trono del giovane erede Alessio e la reggenza del Granduca Michele. Fino al 14 settembre – quando Kerenskij proclamerà la Repubblica – la Russia non avrà una forma istituzionale definita, né monarchica, né repubblicana.
La mattina del 2 marzo, forti dell’avallo ricevuto dal Soviet, i membri del Comitato della Duma si accordarono sulla nomina dei Ministri. Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno fu scelto il principe Georgij L’vov, la Guerra e gli Esteri andarono rispettivamente ad Alexandr Gučkov ed a Pavel Miljukov, due fautori della continuazione della guerra. Kerenskij ebbe il dicastero della Giustizia, il medico Andrej Šingarëv quello dell’Agricoltura, mentre Michail Tereščenko, ricco industriale e latifondista, ottenne il Ministero delle Finanze. Nicola II, pochi minuti prima della mezzanotte, firmò l’atto di abdicazione.
Il 3 marzo il Granduca Michele fu informato dell’abdicazione del fratello. Di fronte all’esitazione del Granduca, venne suggerito a Michele di accettare almeno il titolo di «Reggente dell’Impero». Egli si riservò di riflettere ancora. Pochi minuti dopo annunciò la sua decisione di abdicare. Era il trionfo di Kerenskij contro i moderati:
«Credendo fermamente, come tutto il popolo, che il bene del nostro Paese deve prevalere su tutto, ho preso la decisione di non assumere il potere supremo, a meno che il nostro grande popolo, dopo aver eletto per suffragio universale un’Assemblea Costituente che dovrà determinare la forma di governo e stabilire e stabilire le leggi fondamentali del nuovo Stato russo, non m’investa di questo potere». |
Si trattò di un’abdicazione, o rinuncia, che intendeva salvare il principio monarchico. Nella realtà politica, la Russia si trovò invece divisa tra l’autorità del Governo Provvisorio e quella dei Soviet. E Michele verrà assassinato dai bolscevichi a Perm’, il 12 giugno 1918, poco prima dell’eccidio di Nicola II e della sua famiglia ad Ekaterimburg, il 17 luglio dello stesso anno. Il suo corpo non fu mai trovato.
Aleksandr Fëdorovič Kerenskij (1881-1970), di ascendenza ebraica, avvocato di professione, dal maggio 1917 Primo Ministro della Russia a capo del Governo Provvisorio, fu in grado di sventare il colpo di Stato reazionario del generale cosacco Lavr Kornilov, comandante dell’Esercito dei Volontari, ma non riuscì ad evitare la Rivoluzione d’Ottobre, nella quale i bolscevichi presero il potere. Allo scoppio della Rivoluzione aveva appena 35 anni. Non gli mancavano doti e carisma, ma non era ancora un vero leader popolare. Nel 1905, dopo la “Domenica di Sangue” egli aveva rotto con il regime autocratico, fu coinvolto in attività sediziose ed incarcerato. Il soggiorno in carcere determinò ancor più le sue idee politiche, intrise di populismo e nazionalismo. Dopo il suo rilascio, nel 1906, decise di abbandonare le attività sovversive clandestine e di concentrarsi sull’opposizione legale al regime.
Lenin, riportato dalla Svizzera in Russia dai tedeschi in un vagone piombato – sapendo che con la vittoria dei bolscevichi la Russia avrebbe chiesto la pace, come in effetti poi fu, mentre Kerenskij non osava inimicarsi coloro che desideravano continuare a combattere – era determinato a rovesciare il Governo Kerenskij, prima che avesse la possibilità di legittimarsi attraverso le elezioni previste dall’Assemblea Costituente. I bolscevichi presero il potere in quella che divenne nota come la seconda rivoluzione o Rivoluzione d’Ottobre. Pur vincitore alle urne, il 12 novembre, Kerenskij fu infatti impotente nel fermare la disgregazione delle Forze Armate e l’entità delle rivolte sul territorio. Dovette lasciare la capitale già la notte del 6 novembre 1917. Fuggito a Parigi, dopo varie vicissitudini, Kerenskij fu un duro critico del Governo dell’ URSS. Nel 1940 partì per gli Stati Uniti, dove morì nel 1970.
Rimane aperto, a livello storiografico, il dibattito se ci sarebbe stata una Rivoluzione d’Ottobre, ed il fiume di sangue che ne seguì, ben oltre la guerra civile, senza una Rivoluzione di Febbraio.
*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay