Dice Pasolini:“E disegna l’Appennino nel cielo l’ombra /di una esistenza più antica”. E in quest’esistenza più antica trova posto la tragedia, che sembra invece rimossa, come sentimento collettivo, dalla vita d’oggidì in pianura, ma perfino dalle Alpi.
D’altronde da sempre l’Appennino è la montagna magra, la parente povera delle Alpi terra delle vacche grasse, dei doppi vetri e delle stube, quanto l’Appennino lo è delle case abbandonate coi vetri rotti, dei caminetti anneriti e malandati e dei “preti” di legno da mettere sotto le coperte con la brace per cercare di riscaldare i piedi gelati.
L’Appennino in movimento, agitato, terra che balla e che scodinzola come una lunga appendice del continente protesa nel Mediterraneo.
Terra di povertà atavica, di scarsa agricoltura, di magro allevamento, ma nonostante questo, o proprio per questo, di grande sapienza.
Terra dove confrontarsi con L’acqua il vento/La sanità delle prime cose, come dice Dino Campana il poeta di Marradi, borgo abbarbicato nell’Appennino tosco-emiliano che ha la vana pretesa, poco più in là, di autodefinirsi Alpe.
Invece anche lì è terra d’Appennino, d’emigranti e di poeti, di fame e leggende, di santi e diavoli, di streghe e folletti, che sembra quasi essere sorella – in tutto questo – della verde Irlanda.
A questa nostra terra tragica e ammaliante forse da troppo tempo mancano i ribelli, i briganti, i Waldgänger.
Eppure oggi hai visto un uomo, Enzo Rendina, essere arrestato tra le macerie di Pescara del Tronto perché si è proclamato libero e una donna, una terremotata marchigiana, protestare a Roma alzando un cartello con su scritto “Le nostre mani profumano di stabbio e dignità”.
E allora pensi che l’Appennino non è uscito dalla storia e che anzi quella sua tragica “esistenza antica” potrebbe ancora cambiare la nostra modernità disperatamente felice.