Con strategica e spiazzante deviazione Livorno, tentiamo un ritratto dell’ultimo Battisti, quello dei cinque dischi bianchi (anche se in realtà Don Giovanni è meno bianco degli altri). Affrante paturnie e propaggini parassitarie, all’ombra del mito pop, sconsigliano l’ennesima critica musicale, per questo ci gireremo attorno circospetti. Partiamo dall’epilogo dell’epilogo, che si consuma in funzionale farsa, proprio similmente al “caso Modigliani”. C’è infatti questo parallelismo tra i due artisti, ovvero la beffa dei falsi postumi, il sabba goliardico quale prolungamento artificiale del sipario calato. Statue fasulle rinvenute nei fossi della natia Livorno, nel caso di Amedeo Modigliani, d’altro canto L’asola (camuffamento del romanesco la sòla, per un clamoroso pesce d’aprile), quale ultimo disco immaginario per il musicista di Poggio Bustone. In entrambi i casi la verosimiglianza diede la stura al cancan mediatico, con l’intera artiglieria cartacea e catodica nazionale tratta in inganno e costretta poi a riparare in rettifica. Il caso non sussiste, si scherzava, ci siamo capiti male. Proprio questo aspetto plausibile risulta tuttavia interessante: la riproducibilità della forma pura, accadimento possibile quando l’artista giunge a piena maturazione, ovvero quando – dopo aver spogliato l’opera dall’elemento decorativo, talvolta pure tecnico e comunicativo – si manifesta lo stile, l’essenziale sintesi che è alla base del processo creativo. Ma se per Modigliani la faccenda si sbriga in pochi profondi tratti antropomorfi, per Battisti il fondamento dell’arte s’imbriglia in parole crociate sbagliate su musiche sintetiche e ipnotiche, in canzoni-cattedrali di ghiaccio: più che Battisti, immacolati battisteri di cristallo.
Capogiri essoterici, Il classico, pragmatico, “fatti non parole” disdetto ed equivocato, sabotaggio di banalità assortite, madrigale sincopato d’allusioni inutilizzabili. Tutto questo aleggia trattando dell’ultimo Battisti, come omissis arcano e baluginante, con annessa brontolante pubblica pretesa di un ritorno alle origini. Qui la gente – giacché funziona la parodia del passato solo se a casa qualcuno vota si – esprime solitamente pareri negativi. Superficiale pigrizia, da spernacchiare non solo come gesto snob; a controbattere è l’imperativo di chi è caduto nell’opposto non dialogante, nella spirale dell’ascolto senza replica. Si rovescia la clessidra, nel voler difendere la gelida bellezza futurista delle musiche ultime, la candida metafisica di uno spoglio addio al vetusto frasario da canzonetta. Essere parlati, avrebbe detto Carmelo Bene, essere letti, ritrovando nell’Ulisse di Joyce il ribaltamento di rapporti tra fruitore pretendente “qualcosa”e parola indipendente, col verbo che galoppa libero, scappando altrove. Nascondigli e cifrari. Quelle alchemiche meraviglie, sono solo all’apparenza difficili – s’attende ancora un (buon) senso dalle frasi, dopo Nietzsche e giunti devastati a “ciaone”? -, quell’algebra impazzita, che ribalta gli attuali criteri di massificato consenso tele-talentuoso, fagocitandone addirittura l’idiozia imperante e facendone carne parola stella cometa e re magi, è materia viva, sempre cangiante. Certo, ma “acquazzurracquachiara”? Ma l’emozione rassicurante delle prime pomiciate? Ah, i bei tempi andati, prenderemo un calesse. Altrimenti la gente a casa non capisce, quindi sottofondi e sottotitoli nostalgici per lupetti panteisti, petulanti vecchi come sassi basiti dinnanzi al karaoke strafatto de La sposa occidentale. Gelide pose e libertà liriche più attigue, semmai, ai giovani iper-cavigliati hippoppari, a certo soliloquio suburbano. Si, tradimento della memoria collettiva: qualcun altro ne è stato capace, invece di sonnecchiare sui rosmarini?
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Altrimenti, comme d’habitude, inchiostreremo a vanvera sull’albedo tautologico delle vacue copertine. Anzi forse meglio. Esattamente quello che voleva, azzardiamo: non essere spiegato, cercato, tediato da rotture di cazzo tipo le pubbliche relazioni. Un fanculo alle borghesucce parole, che ci chiede l’Europa del cosa dire o non dire o la Crusca del come dire e non dire, pantofole oranti che per altro sembravano così care al Nanni Moretti pedagogico, con cuffia da piscina in testa e cloro in vasca. O in tasca. Le parole non sono importanti, domandati piuttosto se comprendono qualcosa di te che le pronunci; inutile arrangiare la cosa col cacciavite della logica, i testi di Panella per Don Giovanni, L’apparenza, La Sposa Occidentale, Cosa Succederà Alla Ragazza e Hegel, sono pura anti-didattica; lettere libere, come la E in copertina dell’ultimo album, enigma deducibile rammentando la poesia visiva di Emilio Isgrò. Se cade una foglia è poesia che non si può ripetere in mera descrizione dell’accaduto, qui non interessa saperne di più, interessa raccontare la vita… centrifugandone i brandelli, ricucendone gli strappi con ago e pagliaio. Qui non è più intrattenimento, è arte contemporanea, importa nulla se piace o non piace, conta solo l’umiltà del saper ricevere, oppure salsicce, che comunque sarebbero potute finire grigliate nei testi di Panella.
Ma davvero, che importa? Dischi autosufficienti, non abbisognano di pubblico plaudente, ma solo di volontari e adepti disposti all’abbandono. S’era veramente capito il poetare di Ezra Pound, prima di gingillarsene ad ufo? Giunti agli ideogrammi cinesi dei Cantos, che fare? Rimpiangere l’empatico “quello che veramente ami” e desistere sul resto, riponendo nello scaffale il tomo? Come se poi le origini non fossero altro che finali: “Mehr Licht” per l’appunto, da Goethe all’astrazione metronomica della chiusa Battisti/Panella, questa è fuga in zona franca, evasione dal carcere della poesia imparata a memoria; chi non ricorda i pappagalli seduti in prima fila in classe? Questa è la capriola di “apparire alla Madonna”, il superbo assentarsi dagli esiti commerciali, dai pareri di pubblico e critica, da i “mi piace”, da tutto quello che si dovrebbe essere per compiacere lo stereotipo. Ancora CB, infine: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può”. Tipo portarsi appresso un fardello di care incomprensioni.