Non c’è alcun dubbio che Donald Trump sia “divisivo” (parola fortunatamente non più di moda). Non piace alla sinistra che ha abbandonato i diritti sociali in nome dei diritti civili, non piace alla destra estrema che vede in lui un oppressore della nuova Yalta. Non piace ai centristi globalizzati che sognano di cestinare l’inutile lingua italiana per poter utilizzare quelle mille parole d’inglese che saranno sufficienti per esprimere concetti sempre più ridotti. Ciascuno, dal proprio punto di vista, ha perfettamente ragione. Ma se ciascuno valutasse ciò che infastidisce gli altri, scoprirebbe anche gli aspetti positivi. E’ probabile che Trump voglia spartirsi il mondo con Putin, con l’alibi della lotta al terrorismo. Però non ha senso accusare Mosca e Washington per l’incapacità assoluta di Roma e di Bruxelles.
Ogni Paese cerca di tutelare i propri interessi, solo l’Europa dei cialtroni politicamente corretti penalizza i propri interessi in nome di una globalizzazione che favorisce solo gli altri. E anche la politica economica annunciata da Trump (si vedrà se agli annunci seguiranno i fatti concreti) può danneggiare l’Italia e l’Europa, ma solo a causa dell’inadeguatezza italiana ed europea. Non si può incolpare Trump di difendere le produzioni statunitensi solo perché in Europa si preferisce lasciar mano libera agli imprenditori di trasferire le produzioni in altri Paesi. Visto che noi preferiamo essere autolesionisti pretendiamo che anche gli altri si facciano del male. E mentre i nostri industriali delocalizzano con il plauso dei cialtroni tanto politicamente corretti, gli stessi industriali si allineano immediatamente ai diktat di Trump e si affrettano ad investire negli Usa mettendo a rischio gli impianti realizzati in Messico.
Davvero la sinistra europea può indignarsi se gli Usa salvano o creano posti di lavoro all’interno dei propri confini? Alla sinistra europea gli operai piacciono solo se stranieri? E gli oligarchi globalizzati, con aziende delocalizzate nei Paesi più poveri dell’Asia, dove lo sfruttamento è più agevole, possono sempre andare a produrre in California o in Montana, in Florida o in Texas. Certo, dovranno spendere molto di più rispetto al Bangladesh o al Vietnam, ma è la globalizzazione, bellezza. Oppure potrebbero riportare le produzioni in Italia, pagando i lavoratori in misura tale che possano acquistare la produzione nazionale. Troppo difficile, certo.
Erano così belli gli anni della delocalizzazione selvaggia e dello sfruttamento dei lavoratori anche in Italia, senza doversi occupare del mercato interno perché gli Usa assorbivano vino e vestiti, auto e laser. Ora bisognerà investire, per essere competitivi. Oppure bisognerà capire che a forza di voucher non si crea un mercato domestico in grado di assorbire le quote di abbigliamento e di cibo italiano destinato ora a mercati che si difendono. No, troppo difficile. Meglio vendere le aziende a chi sa fare impresa.