
A poche ore dall’insediamento presidenziale alla Casa Bianca Donald Trump ha firmato, come aveva promesso nel suo piano per i primi 100 giorni di presidenza, annunciato subito dopo l’elezione, il ritiro degli Stati Uniti dal TPP, il Trans-Pacific Partnership, un trattato di libero scambio tra il governo americano e undici Paesi dell’area del Pacifico cui l’amministrazione Obama aveva lavorato per anni insieme al TTIP, il famigerato trattato transatlantico per la creazione di un mercato unico con l’Unione Europea.
Così, dopo l’affossamento di quest’ultimo da parte del governo tedesco la scorsa estate, scelta spinta dalle pressioni dell’opinione pubblica ma soprattutto dalle forti preoccupazioni della potente lobby industriale nazionale, sembra definitivamente tramontato il disegno geoeconomico che aveva caratterizzato l’era Obama.
L’elezione di Trump si sta confermando, per dirla con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, da qualche tempo a questa parte lucidissimo osservatore delle dinamiche politiche globali, il “crollo del muro di Berlino” della globalizzazione e del mercatismo, di cui invece il precedente presidente Usa, nonostante le speranze in lui riposte da un’America impoverita dalla crisi dei mutui subprime, si era fatto pienamente portavoce, incapace di incarnare una visione alternativa al pensiero economico imperante. Un pensiero che vedeva la globalizzazione incontrollata come un fatto ineluttabile più che come una scelta politica.
Non bisogna poi ignorare che TPP e TTIP erano in fondo uno strumento congeniale alla strategia dell’amministrazione Obama per contenere da un lato la crescita dell’influenza della Cina, inglobando il Pacifico in un immenso mercato comune, dall’altro quella della Russia, strappandole il mercato europeo e rendendolo definitivamente integrato a quello americano.
Ma questa visione non faceva i conti con gli interessi delle popolazioni coinvolte e soprattutto delle “working class” europee e americane, le quali rischiavano di veder invadere i rispettivi mercati da prodotti con standard qualitativi inferiori: quelli americani per l’Europa e quelli asiatici per gli Stati Uniti.
In un’Unione Europea già sofferente per il dumping salariale imposto a diversi Paesi dall’integrazione in un sistema economico e monetario che non ha minimamente tenuto conto delle specificità territoriali, la minaccia di un mercato che si sarebbe esteso e che sarebbe stato deregolamentato ulteriormente è riuscita ad essere percepita anche dai non addetti ai lavori e da un’opinione pubblica sempre più informata e lo stesso è accaduto negli Stati Uniti.
La propaganda di Trump contro le delocalizzazioni e contro l’immigrazione illegale di manodopera disponibile a lavorare a basso costo ha fatto breccia nel cuore dei lavoratori americani molto più di quanto abbia potuto farlo l’”Obamacare”, così come lo stesso è accaduto in Inghilterra per la Brexit, grande vittoria politica dell’Ukip di Nigel Farage e sta avvenendo in Francia con l’ascesa del Front National.
Le classi lavoratrici stanno finalmente prendendo coscienza del fatto che la minaccia ai loro standard di vita e il loro progressivo deterioramento derivano principalmente dal tentativo di realizzare l’utopia di un villaggio globale senza confini e barriere alla libera circolazione di merci e persone, utopia che si è però dimostrata e si sta sempre di più dimostrando in ogni angolo del globo un fatto positivo solo per i grandi conglomerati economici e finanziari multinazionali ma certamente non per chi vive di stipendio o del proprio lavoro. Sul fronte politico è palese che sia proprio questa presa di coscienza a spostare sempre di più il consenso delle classi subalterne verso le destre nazionaliste.
Sembra dunque che il processo di “de-globalizzazione” si sia finalmente messo in moto e questo avrà delle ripercussioni non solo a livello economico ma soprattutto a livello geopolitico. La globalizzazione è infatti andata nell’ultimo ventennio ad accompagnarsi all’unipolarismo o e al mondialismo, ossia al dominio incontrastato di un’unica potenza mondiale, gli Stati Uniti, che ha cercato in questo frangente di esportare anche la propria visione del mondo, quella di una società liberale, liberista e progressista, come “la migliore possibile”. I risultati, fallimentari, di questo tentativo, che ha ignorato le particolarità dei popoli del mondo e la crescita di altre potenze e nello specifico le potenze eurasiatiche, sono sotto l’occhio di tutti: la destabilizzazione del Medio Oriente e la crisi ucraina ne sono le principali filiazioni.
Ma il nazionalismo isolazionista di Trump è destinato, come del resto molti osservatori avevano già previsto, ad accelerare il processo di passaggio dal mondo unipolare emerso dal crollo della “Cortina di ferro” al mondo multipolare in cui, di fatto, già viviamo e che vede la suddivisione del mondo in diverse sfere di influenza: americana, russa, cinese e araba, ognuna intenzionata a far valere le proprie ragioni economiche ma senza voler imporre ad altri il proprio modello di società.
Nel mondo multipolare non c’è spazio per blocchi indissolubili: le alleanze sono variabili a seconda dello scenario e del momento e seguono le prerogative dei vari attori coinvolti. Così in Palestina gli arabi sunniti saranno schierati contro gli Stati Uniti e Israele, mentre nei confronti dell’Iran faranno valere i propri interessi alleandosi proprio a questi ultimi. Un esempio di questo è dato dalla recente partecipazione del presidente Xi Jinping al World Economic Forum di Davos, da non ascrivere a un’integrazione della Cina al fronte liberale globale ma piuttosto a una necessità del governo di Pechino di contrastare il nazionalismo economico proprio del nuovo presidente americano.
Non che il mondo sia mai stato troppo diverso rispetto a questo scenario, ma se con l’utopia mondialista si cercava di negare la realtà, la prospettiva multipolare è ora semplicemente più pragmatica e realista. Se la globalizzazione è in parte dovuta allo sviluppo delle tecnologie di comunicazione e all’accorciarsi delle distanze, ciò non significa che essa non possa e non debba essere governata dalle varie nazioni secondo i loro interessi.
Se il vento dell’interesse nazionale sta soffiando forte in tutto il mondo, chi sembra rimanere incredibilmente ancorato a una visione superata dalla storia è la sinistra occidentale che, schiava dei “diritti civili” e del “politicamente corretto”, ideologie sistemiche al mondialismo e alla globalizzazione anglofona e progressista, oltre che di un’errata reinterpretazione dell’internazionalismo marxista in chiave liberale, non ha saputo invertire la rotta e farsi portavoce di una critica al sistema di oppressione globale costituito dai poteri finanziari sovranazionali, cercando costantemente di curare il tumore mondialista con l’aspirina delle libertà individuali e del buonismo.
Gli esiti di questa pseudo-lotta sono ben visibili in Grecia, dove la sinistra radical progressista di Tsipras ha finito per cedere su tutta la linea alle minacce del sistema, finendone completamente schiacciata.