Ogniqualvolta nel mondo si pronuncia l’espressione “limiti della satira” viene voglia, oltre che di mettere mano alla pistola, di evocare il morettiano “no, il dibattito no!”. Esauriti i fasti dell’antiberlusconismo il dibbattito era finito in soffitta, relegato a qualche spericolato tentativo di circoscrivere il campo dell’irriverenza lecita, come ha fatto in un paio di occasioni – e con esiti discutibili – il Daniele Luttazzi di Mentana a Elm Street e della recente polemica contro lo Sgargabonzi (con relativa replica).
Poi è arrivato il fenomeno mediatico Charlie Hebdo, che si innesca puntuale dopo ogni tragedia nel momento in cui un caposervizio annoiato dà ordine al corrispondente (nel migliore dei casi) o allo stagista della redazione online (nel peggiore) di vedere “cosa ha messo in copertina Charlie Hebdo”.
La stampa si ricorda di Charlie Hebdo solo perché sono “quelli della strage” e il giornale satirico francese ripropone ogni volta la stessa vignetta a cui segue lo stesso dibattito con le stesse reazioni pavloviane dei due schieramenti. È un uroboro di banalità già scritte e già dette in grado di autoalimentarsi per eoni: in altre parole, è il sogno proibito di ogni giornalista sciattone.
Addentrarsi nella vexata quaestio di cosa sia satira e cosa no esula dalle possibilità di chi scrive quanto, è lecito presumere, dalla pazienza di chi legge. Qui ci limiteremo allora a suggerire, per sommi capi, qualche spunto di riflessione che può forse contribuire a spezzare l’incantesimo:
1. Smettiamola, per pietà, con il ritornello “la satira non fa ridere, fa pensare”. È un assioma da cui sono discese conseguenze catastrofiche, tra cui una diffusa fallacia logica in forza della quale ora si presume che tutto quello che “è comico” ma non fa ridere faccia pensare, e viceversa.
Un monologo di Marco Paolini può “far pensare” più di uno spettacolo di Louis C.K. ma non per questo è (per forza, o soltanto) satira. E non lo sarebbe neanche se Paolini pretendesse di essere considerato un autore satirico, perché il discrimine non è quello.
Anche la satira ha i suoi meccanismi, diversi finché vogliamo da quelli dell’umorismo puro e semplice (il famoso richiamo alla “risata amara” contrapposta alla “risata di pancia”), ma altrettanto imperativi.
2. Se ti spieghi hai già torto. Se pensi che chi ti critica lo faccia sulla base di una personale inclinazione morale-religiosa, perdi tempo. Se pensi che non ti abbiano capito, perdi tempo ugualmente. Se ti senti in dovere di ridefinire la percezione di una battuta, perché credi che anche chi l’ha capita ti abbia frainteso o perché vuoi cautelarti dal rischio di finire tra gli impresentabili, sei velleitario nel primo caso e vigliacco nel secondo.
3. Come la satira non è comune umorismo, così l’umorismo nero non coincide con la satira comunemente intesa (cioè la “comicità che mette in ridicolo i potenti”). Questo concetto è difficile da far passare in Italia dove, a parte qualche benemerita nicchia del web, esistono solo la “comicità impegnata” (Crozza) e la “comicità per famiglie” (Colorado), più le drammatiche varietà locali (il toscano che fa ridere, il napoletano che fa ridere eccetera).
Qui Selvaggia Lucarelli può scrivere in un commento su Facebook: “Facciamo a capirci una volta per tutte su una cosa. Il black humour è materia per gente che la sa fare. Può non piacere (a me non piace) ma c’è chi lo fa bene. Vauro per esempio lo fa spesso ed è Vauro”. Sostituite “black humour” con “black metal” e “Vauro” con “Jovanotti” e capirete dov’è il problema.
Da noi o sei simpatico o sei impegnato. Per questo se fai una vignetta loffia sul terremoto e non risulti simpatico devi correre ai ripari, perfino se sei straniero, spiegando “ma no, era una vignetta sulla mafia. Regà che avete capito, ahah!”.
Puntare alla savianata, come ha fatto Charlie Hebdo dopo la vignetta sul terremoto di Amatrice e nonostante a nessuno (nemmeno i più compiaciuti) fosse venuto in mente di collegare mafia e terremoto, è un’astuzia disonesta. Perché in Italia mafia funziona come le safeword nel sadomaso e attiva la retorica controitaliana del Paese da distruggere che poi è quanto di più arciitaliano esista.
Mafia è una parola tabù e chi la pronuncia si mette al riparo da ogni critica, mentre tutti gli altri devono fissarsi la punta delle scarpe con aria contrita. Se li avessero contestati in Germania, avrebbero detto che la vignetta era sul nazismo.
In realtà l’umorismo nero può ridere dei terremoti, come del cancro o della pedofilia. Lo fa però in chiave astratta, impersonale, non derisoria, come spiega ad esempio il breve e ottimo testo allegato a questo link.
4. L’automatismo è nemico dei meccanismi umoristici e satirici. La vignetta sempre uguale atta a suscitare reazioni sempre uguali, cioè l’indignazione preconfezionata opposta a una solidarietà altrettanto preconfezionata, viene meno sia agli intenti della satira che a quelli dell’umorismo nero. Diventa cioè una battuta facile, il tormentone di Enzo Salvi nei film di Christian De Sica.
Per questo la colpa di Charlie Hebdo non è quella di “scherzare sui morti” ma di limitarsi allo scherno eternamente riproposto nella medesima chiave. Il problema non è l’offesa, è l’inoffensività. Non è la banalità del male, ma la banalità senza il male. La stessa che potresti trovare nei meandri del trash televisivo a là Barbara d’Urso, con la differenza non trascurabile che lì nessuno ti attacca la pippa sulla mafia quando si sente alle strette e, soprattutto, nessuno ti costringe ad aprire un altro dibattito sui limiti della satira.