Ora lo sappiamo, Donald Trump fa davvero paura. Se durante la campagna per le presidenziali americane ci si poteva immaginare che la comunicazione anticonformista di “The Donald” non fosse altro che una formidabile macchina raccogli consenso, con l’approssimarsi del suo insediamento e ancor più dopo il suo discorso inaugurale questa sensazione è scemata.
La nomina di figure di spicco del mondo finanziario ai vertici del suo gabinetto sembravano lì a voler marcare la netta differenza tra il Trump candidato, che si scagliava violentemente contro l’estabilishment globalista, e il Trump presidente, pronto a scendere a patti con esso, nella migliore tradizione americana, considerando anche il fatto che gli Stati Uniti sono la nazione che ha fatto da incubatore all’ideologia mondialista e alla sua diffusione per via commerciale e, quando serviva, “manu militari”.
Eppure, anche quando non sarebbe più stato necessario raccogliere consenso, l’uomo dalla chioma bionda ha parlato chiaro e lo ha confermato: vuole essere lui il cavallo di Troia del crollo del mondialismo, l’ideologia sorta dal crollo del muro di Berlino e dallo sposalizio definitivo tra sinistre progressiste, destre tecnocratiche e capitalismo cosmopolita, che vedeva gli Stati Uniti quali unica potenza globale con il dovere messianico di esportare il proprio modello fatto di liberismo economico e libertinismo morale.
Il neo presidente americano ha parlato nei giorni scorsi addirittura di superamento della Nato, ad oggi il principale strumento militare proprio del mondialismo. Apriti cielo. Subito dall’Europa si sono levate le voci di protesta di Angela Merkel, dopo la caduta di Obama rimasta evidentemente la più importante rappresentante istituzionale di tale elaborazione ideologica.
Già, perché iniziano a essere molti i motivi per cui Trump da fastidio alle elites finanziarie sovranazionali e al suo personale politico di riferimento. Da fastidio perché dice di voler reintrodurre i dazi doganali e tutelare l’industria nazionale ad esempio. Da fastidio perché dice di voler fermare la “geopolitica del caos” e le esportazioni di democrazia a suon di bombe. Da (molto) fastidio perché vuole fermare i trattati di libero scambio intercontinentali.
In sintesi, sebbene in concreto il nuovo inquilino della Casa Bianca non abbia fatto nulla, Trump da fastidio a chi sogna un mondo senza regole e confini e un’umanita’ appiattita e senza differenze, culla ideale per generare dei consumatori
perfetti e acritici nei confronti dell’idea di “progresso” intrinsecamente contenuta dalla visione mondialista. Ecco perché non sorprendono e non ingannano più le proteste dei tradizionali gruppi di contestazione, che si muovono sempre per colpire chi questa visione non la condivide o chi se ne discosta: da Berlusconi a Putin passando per il presidente ungherese Orban e ora Trump. Nel caso di quest’ultimo poi la contestazione è tanto più forte perché avvenuta prima ancora di qualsiasi scelta, atto o mossa che il neo presidente abbia potuto fare. È una contestazione aprioristica e violenta perché quel mondo che le sta dietro, dai Soros ai Clinton, dalle lobby Lgtb ai progressisti al caviale della Silicon Valley, non accetta che una figura di questo tipo possa aver preso il potere in quello che, nei loro disegni di egemonia politica, economica e geopolitica doveva essere il centro irradiatore del loro progetto: gli Stati Uniti d’America.
Tuttavia, se Trump ha vinto le elezioni democratiche, la sfida da vincere più difficile sarà quella per dominare lo “Stato profondo” americano. Le prime avvisaglie di questa sfida si sono avute con i continui scambi di vedute tra il presidente eletto e i vertici della Cia fino al giorno dell’insediamento. Questa è e sarà la battaglia più rischiosa per il nuovo presidente, dalla quale o uscirà vincitore o sarà distrutto, nell’immagine e nella credibilità. Ecco perché chi si aspetta stravolgimenti dell’ordine mondiale nel breve termine dovrebbe restare cauto. La battaglia non è finita. È anzi appena iniziata.