Sabato 16 gennaio, in occasione del trigesimo della sua scomparsa, è stata celebrata alle ore 11 nel duomo di Orbetello una messa in suffragio di Paolo Balbo, figlio del quadrunviro, ministro dell’Aviazione e governatore della Libia Italo. Dopo la cerimonia la salma di Paolo Balbo è stata tumulata in prossimità della tomba del padre. Italo Balbo era stato inizialmente sepolto a Tobruk, insieme alle altre vittime dell’incidente aereo di cui era stato vittima, e lì, nella colonia di cui era stato illuminato governatore, sarebbe rimasta se Gheddafi nel 1970 non avesse espulso dalla Libia non solo gli italiani, ma le loro salme. Dopo un breve transito nel sacrario militare di Bari, la famiglia aveva scelto di inumare la salma nel sacrario di Orbetello, da cui erano partite le trasvolate atlantiche di cui Italo Balbo era stato l’organizzatore e l’animatore. Di Paolo Balbo pubblichiamo questo ricordo di Enrico Nistri, che ha frequentato il figlio del quadrunviro ferrarese negli ultimi anni di vita.
Quando a Tripoli un ospite illustre si recava in visita al Palazzo del Governatore, Paolo Balbo, unico figlio maschio di Italo, aveva il compito di offrirgli un mazzo di fiori. Tutti erano naturalmente contenti di ricevere l’omaggio e facevano molte lezie a quel bambino sorridente ed educato. Solo la principessa Maria José, quando, nel 1937, si recò in visita a Tripoli, ebbe una reazione imprevista, strappandoglielo quasi di mano. Paolo Balbo ancora sorrideva di quel malgarbo quando il 16 agosto 2014 rievocava l’episodio nel giardino della mia casa di Viareggio, dove, sfidando il freddo notturno di un’anomala estate, l’avevo invitato a cena con la moglie.
Il cielo stellato e una bottiglia di Traminer ungherese incoraggiavano i ricordi, in quell’ottantenne benportante che a mezzanotte sarebbe voluto ritornare da solo a piedi a casa sua, attraversando la pineta di Viareggio, oltre tutto non molto ben frequentata (ed effettivamente ci ritornò, insieme alla moglie, la signora Paola, nonostante le mie proteste). Lo conoscevo da sei anni, per una circostanza che può sembrare assurda, ma è molto indicativa del puntiglio con cui Paolo Balbo ha difeso sino agli ultimi giorni di vita la memoria paterna.
Era l’agosto del 2008 e conducevo insieme a Romano Battaglia un ciclo d’incontri sulla storia del Novecento al caffè letterario della Versiliana, a Marina di Pietrasanta. Paolo Balbo aveva saputo che ne avevo in cartellone uno dedicato all’aviazione italiana durante l’ultima guerra. Ospite della serata era fra gli altri un giornalista d’indubbia bravura, divulgatore piacevole e spesso anticonformista, ma a volte un po’ approssimativo: Balbo aveva il terrore che nel corso dell’incontro, trasmesso anche in televisione, gli sfuggisse qualche inesattezza sul conto del padre, che voleva essere pronto a smentire. Per questo, tramite una mia gentilissima vicina di casa, che era sua amica e ne condivideva il doloroso destino di orfana di guerra, mi chiese con molto tatto d’informarlo e se possibile procurargli la registrazione dell’incontro, cosa che naturalmente fui lieto di fare. Di Italo Balbo quel pomeriggio alla Versiliana non si parlò che bene, ma da allora nacque un rapporto di cordialità e di confidenza che si è protratto sino alla sua morte, il 16 dicembre scorso. Gli incontri non furono molti, perché i coniugi Balbo vivevano fra Roma, il Friuli, dove avevano alcuni parenti, Punta Ala, dove avevano conservato la proprietà della rocca. A Viareggio, dove possedeva un appartamento la moglie, Paolo Balbo faceva solo qualche breve sosta. Quei rari incontri furono però sufficienti a farmi conoscere molti aspetti della signorilità e della dignità di uno degli ultimi testimoni di un mondo non privo di grandezza, scomparso il 16 dicembre scorso.
È noto che Paolo Balbo rimase orfano del padre a dieci anni, per il tragico errore della contraerea italiana in cui persero la vita altri due suoi parenti e Nello Quilici, direttore del “Corriere Padano” e padre del documentarista e scrittore Folco. Meno note furono le asprezze che la vita gli riservò nell’adolescenza. Nell’opinione corrente, Italo Balbo è oggi ricordato come il fascista “buono”, antagonista di Mussolini, valoroso aviatore, ostile all’alleanza con i tedeschi. È stata a lungo ventilata l’ipotesi, smentita dai fatti e oggi non condivisa neppure da Folco Quilici, che l’abbattimento del suo velivolo da parte della nostra contraerea non fosse stato una fatalità. Ma in realtà dopo il 25 luglio il nuovo potere antifascista non fece sconti alla sua famiglia, che si vide sequestrare i beni per presunti profitti di regime. Altri gerarchi, o i loro congiunti, sottoposti a procedimento analogo, seguirono il prudente consiglio degli avvocati e preferirono “transare” con lo Stato, per tornare in possesso dei propri beni evitando estenuanti processi. La madre di Paolo, la contessa Emanuela Florio, una friulana onesta e orgogliosa, non volle scendere a compromessi, convinta dell’onestà del marito e anche del fatto che i beni di famiglia provenivano non da traffici illeciti, ma dalla sua ricca dote. Ne derivarono, vista la lentezza della Giustizia italiana, anni di ristrettezze, tanto più tristi per chi era cresciuto all’interno di una palazzo quasi regale, a Tripoli; ma a queste angustie materiali se ne aggiunsero altre di carattere morale. Nel 1947 fu riaperto il processo per l’assassinio di don Giovanni Minzoni, valoroso esponente popolare e pluridecorato cappellano militare, che nel 1925 si era concluso con l’assoluzione per insufficienza di prove degli imputati, personaggi di scarso conto dello squadrismo ferrarese. Il diciassettenne Paolo assistette al tentativo di coinvolgere il nome del padre in quel crimine, per altro completamente fallito, con un verdetto che condannava gli esecutori materiali del delitto ma escludeva ogni compromissione, sia pur morale, del padre.
Nonostante quella sentenza i tentativi d’infangare l’onore di Balbo collegando il suo nome all’assassinio del sacerdote sarebbero proseguiti anche in seguito. E per tutta la sua vita Paolo, che nel frattempo aveva intrapreso la carriera forense, vi si oppose, a forza di smentite e, se necessario, di querele. Uomo calmo, pacato, lontano dallo straordinario attivismo paterno, ma al tempo stesso determinato, contribuì a promuoverne la memoria anche attraverso la fondazione Associazione Trasvolatori Atlantici, costituitasi nel 1968 con la partecipazione sia di ufficiali dell’Aeronautica, sia di congiunti di protagonisti delle crociere transoceaniche, primo fra tutti il grande Carlo Del Prete.
Pur non essendo certo un uomo di sinistra, come invece lo fu per qualche tempo il suo coetaneo e compagno di sventura Folco Quilici, con cui rimase in rapporti di amicizia, Paolo Balbo condivideva nei confronti della galassia neo e in seguito post-fascista quel sentimento di distacco che mi è capitato di scorgere anche in altri familiari di esponenti di spicco del regime. La sua devozione alla figura del padre lo induceva a difenderne la memoria non solo dalla faziosità di certo antifascismo, ma anche dai tentativi di strumentalizzazione della destra. Questo lo indusse ad assumere posizioni molto ferme nei confronti di talune iniziative avviate senza il suo consenso. Apprezzò invece, perché proveniva da un organo istituzionale, la decisione di Massimo Brutti, sottosegretario alla Difesa nel governo Prodi, che nel 1996 volle scoprire un busto del padre nel Ministero sfidando le ire della sinistra comunista. In realtà, Paolo aveva un alto sentimento dello Stato, tipico del clima morale in cui si era formato, un senso alto delle istituzioni che lo ha indotto a devolvere all’Archivio Centrale dello Stato le preziose carte paterne, preziosa testimonianza di trent’anni di vita civile e militare dalla grande guerra alla scomparsa nel cielo di Tobruk. Il suo intento era vedere il padre incardinato nella storia d’Italia, non di un partito o di una fazione. E nella storia d’Italia avrebbe voluto che fosse inscritta anche la Libia, quella colonia che il padre aveva curato da governatore con straordinaria passione, quel mondo incantato in cui aveva vissuto l’età favolosa dell’infanzia, spezzata dal “fuoco amico” di Tobruk. Mi confidò che, se non avessimo perso la guerra, o meglio ancora se non vi fossimo entrati, quella colonia sarebbe potuta diventare parte integrante del territorio metropolitano assai più facilmente di quanto l’Algeria non sarebbe potuta diventare francese, visto il basso numero degli indigeni e la crescente, laboriosa immigrazione dei nostri coloni. E, mentre me lo confidava, mi parve che avesse gli occhi lucidi.
La difesa della memoria paterna poteva toccare anche aspetti che non afferivano direttamente alla politica. Italo Balbo era un uomo affascinante e gli vennero attribuite molte conquiste, a torto o a ragione. Una volta su un rotocalco apparve il memoriale di una donna che sosteneva di essere stata concepita da lui durante una notte d’amore sulla spiaggia di Viareggio, e indicava persino la data. Paolo controllò, con certosina pazienza, i libretti di volo del padre, da cui risultava che il quadrumviro, quella notte, stava sorvolando la Libia. Telefonò per smentire alla direzione del rotocalco e l’autore dell’articolo gli confessò candidamente che l’intervista era stata venduta da una poveraccia che faceva la fame. Un po’ come faceva la fame – corsi e ricorsi storici – l’ex fascista spostato che per 7.000 lire (del 1924) aveva passato alla stampa antifascista un memoriale pregno di calunnie nei confronti di suo padre.
Su Italo Balbo esisteva però un gossip più nobile, anzi addirittura regale: quello relativo a un suo flirt con la principessa Maria José, i cui frequenti viaggi a Tripoli, con o senza il consorte, avevano dato adito a numerose illazioni. A nessun figlio fa piacere scoprire le divagazioni paterne, sia pure con future altezze reali, e Balbo quella sera d’agosto pensò di poter liquidare la questione adducendo la stizza della futura regina nello strappargli di mano i fiori a dimostrazione dell’assenza di una corrispondenza di amorosi sensi fra lei e suo padre. Fui tentato di fargli presente come dietro quella reazione stizzosa potesse nascondersi un dispetto geloso per la presenza di una famiglia che si frapponeva alla realizzazione del suo sogno d’amore, ma ovviamente mi guardai bene dal farlo. Ingenuo, nell’accezione più alta e nobile, latina, del termine, Paolo non l’avrebbe mai accettato. E fui contento di lasciarlo con le sue certezze mentre, a braccetto della moglie, s’incamminava con passo fermo verso casa, nel freddo inopinato di una notte di mezza estate.