“Si deve ricordare e si può parlare di sovranità, ma questa non può essere né un’ideologia né tantomeno una premessa per versioni aggiornate e corrette di becero nazionalismo. Uno stato o è sovrano, o non è”: questo il monito che Stefania Craxi, presidente della Fondazione Craxi, lancia con questa intervista su Barbadillo.it, in un dialogo che affronta il tema post-referendario, la necessità di un sano riformismo, la crisi dell’Unione Europea, la mancanza di una legge elettorale che garantisca il pluralismo e il ruolo dell’Italia di Craxi nel Mediterraneo.
Onorevole Stefania Craxi, tra le principali accuse del fronte del Sì verso il fronte del No c’è stata quella di essere conservatori e di non voler cambiare niente. Che significato ha il Suo No?
“La strategia maldestra di additare quali beceri conservatori tutti i contrari alla de-forma non è stata foriera di consensi. Sebbene nelle urne, per chiara responsabilità del governo, si sono concentrate una moltitudine di istanze, bisogna evidenziare come ad essere bocciato è un testo di modifica costituzionale che rischiava di produrre effetti distorsivi sul sistema democratico ed un’involuzione nella vita politica ed istituzionale, ma non già la necessità, che rimane viva ed attuale, di una vera “grande riforma”. Il mio “NO”, al pari di tanti altri, non è a difesa dello status quo, ma è il frutto di chi vuole un cambiamento reale, sostanziale, che dipani i nodi irrisolti della transizione italiana”.
Da dove dovrebbe ripartire la spinta riformista e modernizzatrice per un processo di riforme?
“Serve riflettere sull’adeguatezza dell’art. 138 come strumento utile per modifiche organiche. Visti gli esperimenti malriusciti dell’ultimo ventennio, con riforme posticce, approvate a colpi di maggioranza e poi bocciate dagli elettori, è giunto il momento di invertire rotta e ripartire proprio da quest’ultimi. Servono dei cittadini costituenti per una Costituente dei cittadini. L’elezione di un’Assemblea che rediga la nuova costituzione repubblicana e la contestuale indizione di un referendum d’indirizzo che demandi al popolo la scelta della forma di Stato (centrale o federale), della forma di governo (parlamentare o presidenziale) e sull’ordinamento giudiziario (separazione carriere o meno) resta l’unica via d’uscita ordinata dal pantano”.
Che scenario si delinea ora per l’Italia?
“I prossimi mesi saranno assai importati e delicati con appuntamenti internazionali e con scadenze, vedi la fine del QE della BCE, che rappresentano un snodo fondamentale per le economie di tutti i Paesi dell’eurozona ed ancor più per un’Italia che, negli ultimi anni, grazie alle marchette elettorali dell’ex premier, ha visto lievitare il proprio debito pubblico. Vi è poi la necessità di varare una legge elettorale che consenta di avere istituzioni legittimate e rappresentative. Non si avrà nessuna stabilità politica e non si raggiungerà la tanto agognata governabilità attraverso artifici elettorali che stravolgono la volontà popolare. Non si governa avendo contro i 2/3 dei cittadini ed essendo minoranza conclamata nel Paese. Questa riflessione mi porta a dire con forza che il ragionamento sul nuovo meccanismo elettorale deve partire da un impianto proporzionale. Ogni polemica sul ritorno alla prima repubblica è pretestuosa, cela malafede, e non tiene conto della nuova realtà e del cambio di sistema che avvenuto con le elezioni politiche del 2013”.
In questi giorni ricorrono i venticinque anni del trattato di Maastricht. Quali sono le sorti dell’Ue e dell’Euro?
“Lo stato di salute dell’Ue, della moneta unica e delle istituzioni comunitarie non è dei migliori. Ad un quarto di secolo da Maastricht è necessario fare un bilancio, capire i mali che affliggono l’Europa e correggere risolutivamente le distorsioni da cui origina la crisi europea che è progettuale, politica e democratica ancor prima che economica. E’ questo un orizzonte ineludibile, poiché se non si cambia rotta, se non si innesta il germe della democrazia nei processi decisionali e nominali, il rischio implosione è dietro l’angolo e non certo per colpa dei tanti populismi che sembrano infettare a macchia d’olio la politica e la governance degli Stati. “Rinnovarsi o perire” era un vecchio slogan dei socialisti italiani che l’Europa deve, oggi più che mai, far suo”.
È da poco uscito “La notte di Sigonella. Documenti e discorsi sull’evento che restituì orgoglio all’Italia”, a cura della Fondazione Craxi (di cui Lei è presidente). Si può ricordare e ripartire da quella notte gloriosa per tornare a parlare di sovranità nazionale?
“Si deve ricordare e si può parlare di sovranità, ma questa non può essere né un’ideologia né tantomeno una premessa per versioni aggiornate e corrette di becero nazionalismo. Uno stato o è sovrano, o non è. E questo deve esercitare la sua sovranità, nel rispetto delle leggi internazionali, senza egoismi ma a difesa e tutela dei suoi interessi legittimi e di quelli dei suoi cittadini. Quanto a Sigonella, quella fu la notte della politica, delle scelte difficili ed obbligate per chi si poneva come interlocutore primario nelle più importanti questioni che interessavano le regioni mediorientali. Le intuizioni di Craxi, che attribuiva importanza vitale alla stabilità ed alla pace nel Mediterraneo e nel Medioriente come fattori indispensabili per la sicurezza, lo sviluppo e la stessa esistenza dell’Europa, non sono state perseguite in questi anni. Se si fosse seguita la strada da lui tracciata ci saremmo risparmiati molte tragedie dell’oggi…”.