Era uno scrittore di movimento e immersione. Ci sono scrittori che aspettano il mondo e scrittori che vanno a prenderselo, Jack London – tante vite – apparteneva alla seconda categoria. Con una aggiunta: non solo andava a prenderselo ma ci si immergeva. Per questo, un secolo dopo la sua morte, siamo ancora qua a scriverne e parlarne e prima a leggerlo. Invidio molto chi non l’ha ancora letto e sta per farlo, perché da qualunque parte comincerà, si troverà di fronte a un rapimento: London agguanta e trascina giù, e dove il suo giù è un posto ampio e ventoso, che per brevità chiameremo storia. Era un passionale, non ha mai fatto calcoli in vita sua ma ha sempre seguito i suoi ideali (socialisti), e inseguito un concetto largo di verità e giustizia: al quale sentiva di appartenere.
Ha attraversato il confine tra l’800 e il ‘900, la terra e l’umanità del suo tempo, raccontandoci con una certa precisione tutto quello che andava salvato, conosciuto. Autocostruitosi, con mille dubbi e cambi di rotta, la sua produzione è enorme nonostante sia vissuto solo quarant’anni (nacque come John Griffith Chaney a San Francisco nel 1876 e morì a Glen Ellen nel 1916, nella sua tenuta in California come Jack London), ed ha una intensità colossale.
Quarant’anni passati a fare mille lavori e a scrivere ogni mattina. London fu inscatolatore di lattine, rivenditore di giornali, predatore di ostriche, sorvegliante dei mari contro i predatori di ostriche, marinaio e cacciatore di foche, spalatore di carbone, giardiniere, facchino, scaricatore di porto, addetto alla pulizia, lavandaio, cercatore d’oro, fotografo, e soprattutto scrittore; fu anche un attivista e politico, e un progettista di barche, case e nuovi mondi. Una contrapposizione continua tra corpo e testa, scrittura e vita. Il risultato è una inquietudine distribuita in cinquanta libri, spezzettata in centinaia di racconti, migliaia di articoli, e lasciata a tutti quelli che l’hanno incrociato dall’Alaska a Londra passando per le Fiji.
London sentiva il bisogno di esserci e sperperarsi, vivere e raccontarlo, buona parte di questo vivere è nella sua biografia e nel racconto del suo alter ego, “Martin Eden” (Garzanti). Poi ne son venute altre a suo nome – Daniel Dyer, “Jack London. Vita, opere e avventura” (Mattioli 1885) o Irving Stone, “Jack London” (Castelvecchi) – in molti hanno provato a ordinare l’enorme avventura che fu la sua esistenza, ed è strano che non ci sia ancora un film dalla vita più cinematografica possibile. London è la supremazia della verità sulla fiction, il padre del giornalismo moderno, ed è anche il capostipite degli scrittori vagabondi (non a caso Jack Kerouac lo adorava, e con lui gli altri Beat): provate a leggere i suoi reportage e a guardare le sue foto (ne scattò più di dodicimila) per il terremoto di San Francisco (1906), la guerra tra Russia e Giappone (1904), l’immersione nella vita dei poveri londinesi (scegliendo di annullare le distanze, con una modernità enorme) nell’East End, o il giro in barca – “Lo Snark” – nei mari del Sud, Hawaii, Marchesi, Tahiti, Samoa e Fiji fino alle isole Salomone; raccolti ne “Le strade dell’uomo” (Contrasto). Poi c’è anche la fiction, ma London è perlopiù naturalismo, viene ricordato per “Zanna bianca” (Feltrinelli) – un classico della letteratura per ragazzi – romanzo scritto per guadagnare soldi che non ebbe e finì per oscurare il resto della sua opera migliore. Un paradosso, per un uomo molteplice, non riconducibile a un solo piano, a un solo carattere o a un solo tema.
Passò la vita ad abbracciare e capire tutto quello che c’era da abbracciare e capire, in un eventuale film avrebbe sempre l’affanno e il sorriso, sarebbe sempre in movimento e in discussione con un mucchio di gente, al punto di apparire spesso fuori fuoco, in corsa tra una cosa e l’altra, senza mai perdere di vista nulla, spendendosi in nome della scrittura, vivendo da uomo libero e per questo tra mille difficoltà: economiche e sociali, senza mai cadere veramente. In lui la sconfitta è sospensione d’un attimo prima della ripresa verso una impresa ancora più grande. In una enorme contraddizione tra superomismo e socialismo, oscillando tra la prima persona singolare (io) e la prima plurale (noi), annaffiate a whisky “Memorie di un bevitore” (Feltrinelli), lo si capisce bene ne “Il senso della vita (secondo me)” (Chiarelettere) e ne “Il Tallone di ferro” (Feltrinelli).
Posseduto da una ironia tragica, si muoveva tra determinismo e autodistruzione, London mise al centro il suo corpo – nelle varie trasposizioni – e muovendolo nella storia e nella geografia causò storie prima di scriverle. Una valanga, un continuo fare e disfare, scrivere progettare, vincere e perdere, con un solo motore: il coraggio. Soccombe e crea. Cerca la fama, la ottiene ma non smette di temerla. Sogna una perfezione – del mondo e di sé – che bordeggerà senza raggiungere, col socialismo e la scrittura, la politica e i romanzi, le azioni e lo scrivere; che immaginerà senza ottenere. In una continua disubbidienza – intesa nella forma più ampia di libertà – che si nutre delle “braci morenti del fuoco di ieri”, scrive anche il suo ultimo romanzo: “Il vagabondo delle stelle” (Ar). Dal mare al carcere, dalla foresta alle utopie, dagli animali agli uomini, la coerenza di Jack London salta agli occhi: un uomo in viaggio che cerca l’apice della conoscenza, pur temendone la fine.