Al Complesso del Vittoriano – Ala Brasini, l’ennesima mostra-evento che, non abbiamo dubbi, attirerà l’attenzione del pubblico della Capitale. Trattasi della esposizione dedicata al celeberrimo pittore americano Edward Hopper (1882 – 1967), arcinota icona dell’arte del XX secolo. Amatissimo, forse persino più all’estero che in Patria, la mostra resterà aperta sino al 12 febbraio 2017, con circa 60 opere di quel pittore che fu capace, unico nel suo Paese, di entrare nel novero dei grandi a livello internazionale. Purtuttavia, ogni volta che abbiamo a che fare con Hopper, sorge in noi immancabilmente un interrogativo: è giusto considerarlo un “grande”, oppure il suo contributo, più che qualitativo, andrebbe principalmente giudicato quale un prezioso strumento per comprendere la società USA? Inoltre, proprio su questo punto, è possibile definirlo una sorta di anti-Norman Rockwell (1894 – 1978)? Attraverso lo studio di alcune delle opere presenti al Vittoriano, cercheremo di trovare una risposta a queste domande.
Narrando l’incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana che caratterizzò la sua produzione artistica, la mostra intende offrire una vera e propria “cifra hopperiana”, ereditata in molteplici campi dell’espressione visiva, riproponendo i suoi quadri in poster, copertine di libri e citazioni cinematografiche. Sfuggente e raffinato, poco avvezzo alla mondanità. Ciononostante, popolare, riconosciuto e amatissimo, Edward Hopper si distingue e si rende riconoscibile per la sua capacità di fotografare e trasformare in immagini i tratti e i modelli della società americana; dalle strade desolate senza un’anima pulsante, alle pompe di benzina deserte e i paesaggi di campagna, mettendo in discussione il sogno americano attraverso quelli che egli stesso fece diventare degli stereotipi. Hopper, per mezzo del suo discreto e attento realismo, racconta i lati silenti del suo Paese, le vetrine dei negozi, i ponti, come pure tematiche assai più intime, quali gli interni di uffici e abitazioni. Tra i suoi soggetti favoriti vi sono scorci di vita nei tranquilli appartamenti della middle class, spesso intravisti di nascosto, a evidenziare quel voyeurismo che è la quintessenza della “cifra hopperiana”.
Nato e cresciuto a Nyack, una piccola cittadina nello Stato di New York, alla stregua del succitato Rockwell, Hopper è un figlio urbanizzato di quel New England, dove, tra fine ‘800 e inizio ‘900, si andò formando una particolare forma di aristocrazia americana, fatta dello scimmiottamento di quella europea, e per la quale i viaggi nel Vecchio Continente rappresentavano la unica forma riconosciuta di emancipazione culturale. Dopo un periodo di formazione presso la New York School of Art, egli si reca finalmente in Europa. Una esperienza che lo segnerà profondamente, nella sua ricerca per una consacrazione della sua arte, prendendosi sempre molto sul serio; l’esatto contrario di Rockwell, che fece del suo essere americano sino al midollo la sua originalissima essenza creativa. Qui ancora sorge un altro quesito se sia alla fine corretto definire Hopper il più “americano dei pittori”, quando, per converso, chi ha veramente raccontato questa Nazione anche meglio di lui è forse stato proprio Rockwell, con le sue copertine per il The Saturday Evening Post. Fatto sta, che Hopper, durante il suo soggiorno europeo (ben tre saranno i suoi viaggi, dal 1906 al 1907, nel 1909 e nel 1910), da bravo “provinciale”, inciampa nel banale, venendo totalmente rapito da quello che l’ottimo francesista Giovanni Macchia definì il: “mito di Parigi”. Nella Ville Lumière, l’artista americano sviluppa un potente elemento francofilo che non lo avrebbe mai abbandonato, anche dopo essersi stabilito definitivamente a New York a partire dal 1913. La seriosità, una gravità nella sua proposta artistica, tutto questo in Hopper va ricondotto a quel côté transalpino che si sedimentò in lui, privandolo di quel senso ludico e vitale, trascendentalista potremmo persino dire, che è l’anima vera della cultura USA, quella WASP, e che ha trovato in Rockwell il suo spensierato campione.
Nondimeno, a passare alla storia come il pittore americano è stato Hopper, arrivando addirittura a far sì che il proprio nome diventasse un aggettivo. Questa mostra, malgrado manchino alcune delle tele più note al pubblico (Gas [1940] e Nighthawks [1942]), permette di comprendere cosa voglia dire in pittura il termine “hopperiano”, un aggettivo, quindi, che non solo indicata il riconoscimento popolare di un artista, ma anche la sintesi di una idea legata a un determinato autore; “lovecraftiano”, “nietzschiano”, “pirandelliano” e, come nel nostro caso, “hopperiano”; ovvero quel miscuglio di staticità e vibrante inquietudine che è poi il cuore del realismo di Hopper. Un pittore che essenzialmente guarda, più che osserva, sino a spiare i suoi soggetti, animati o inanimati che siano. Freddo ed essenziale, immediato e privo di giudizio, questi sono alcuni dei termini che gli calzano meglio. Possiamo definirlo quasi un regista, il quale piazza i suoi attori in scene mute, collocando l’obiettivo in un luogo celato ai personaggi che egli ritrae nella sua commedia della disperazione, dove tutto è silenzio, in cui il movimento è praticamente bandito; pure in questo egli si distanzia dalla vitalità all-American di Rockwell. Sia come sia, nutriamo alcuni dubbi sulla decantata qualità artistica di Hopper, la quale esiste indubbiamente, ma forse è stata esagerata nell’acclamarlo il pittore americano per eccellenza; eppure continuiamo a ritenere che tale titolo sarebbe più adatto per l’“illustratore” Rockwell. Taluni accostano Hopper a Giorgio De Chirico; non scherziamo, De Chirico è stato un eterno dell’Arte e nelle sue tele non vi è alcuna staticità, anzi in esse abbonda quell’impeto intellettuale che manca totalmente al “fotografico” collega statunitense.
Hopper condusse una vita alquanto riservata, vissuta in simbiosi con la moglie Josephine Nivison, che sposa, all’età di quarantadue anni (lei quarantuno), nel 1924, pittrice a sua volta e che lui chiamava affettuosamente Jo. Un individuo schivo dunque, come è chiaramente dimostrato dalle sue opere in mostra al Vittoriano. La consorte diventa la modella di tutte le sue figure femminili; la sua unica musa. Nel 1933, l’artista acquista una casa a Truro (Massachusetts), nella penisola di Cape Cod, dove passerà sempre i mesi estivi, dipingendo ad acquerello – non tutti sanno che nasce come acquerellista – e a olio le dune, le case e i fari del posto. Da questo momento in poi, New York e Cape Cod saranno le fonti di ispirazione di buona parte delle sue opere.
Torniamo ora alla esperienza parigina, centrale nella sua evoluzione artistica. La sua formazione nella capitale francese è alla fine quanto mai convenzionale per un americano dalla sensibilità marcatamente provinciale, incapace di comprendere la necessità di andare alla fonte dell’arte Occidentale, che non era rappresentata da quel “mito” moderno incarnato da Parigi. Durante il suo soggiorno in Europa, Hopper non visiterà Roma! Una lacuna intellettuale che penalizzerà la sua pittura, rendendola priva di movimento e potenza, nonché di riflessione, vincolandola alla istintività. Un suo contemporaneo e connazionale, lo scultore Hendrik Christian Andersen (1872 – 1940), di origine norvegese e italiano di elezione, fece l’esatto opposto, valutando Parigi priva di quella indispensabile classicità che trovò invece a Roma. Però, Andersen veniva dall’Europa, quindi non affetto da quella miopia anti-tradizionale che caratterizza la cultura americana; in questo sia Hopper che Rockwell sono simili, sebbene il secondo non abbia mai palesato quella “supponenza” autoriale, frutto della influenza transalpina, che caratterizza Hopper. La sconcertante contraddizione in quest’ultimo la si ritrova nel suo rifiuto di quelle avanguardie che avevano reso Parigi la capitale artistica mondiale nella prima parte del Novecento. Il “voler fare il francese” per Hopper fu allora una esperienza di insuccessi, che lo penalizzerà anche al ritorno in Patria, quando si ostinerà, come dimostrano alcuni quadri in esposizione, nel riprendere in modo automatico e poco ragionato i lavori dei grandi pittori che aveva potuto ammirare nei salon parigini. Sarà solo con The El Station (1908), prima opera che si svincola dalla influenza francese, che nascerà l’Hopper pittore veramente americano, unico, malgrado non eccelso.
Se formalmente egli non riuscì a essere un Maestro, vi è comunque un qualcosa di profondamente speciale nella sua arte. Egli diventa argomento di grandissimo interesse non tanto quando lo si analizza semplicemente come pittore, piuttosto se si legge l’America da lui raccontata. In questo caso sì che l’operazione dischiude enormi possibilità di riflessione. Quella fredda tensione erotica, epitome di una profonda inquietudine. In ciò, lui è stato, come nessun altro, americano, capace di riassumere in pochi folgoranti soggetti il suo Paese. Quello dei bianchi, dei benestanti annoiati del New England.
Negli anni ’50, in pieno maccartismo, riceve numerosi premi e onorificenze. Prima di allora la sua fortuna era stata alterna. In uno dei periodi più bui e bigotti della storia americana, Hopper viene percepito come l’icona della sua Nazione. La spiegazione è abbastanza semplice, sempre però se la si decifra attraverso la lente dell’americanistica. Questo artista ha personificato l’essenza oscura di quelli che in Letteratura vengono chiamati: Tranquillized Fifties. Anni terribili per gli Stati Uniti, benché abbiano prodotto l’unico momento di prezioso contributo culturale, insieme al movimento trascendentalista dell’Ottocento, nella storia USA. Una epoca drammatica, segnata dalla caccia alle streghe anti-comunista, di repressione dei costumi. Ciononostante, proprio in quella manciata di anni escono i celeberrimi romanzi di Kerouac e Salinger, nasce e si spegne subito la stella di James Dean, si concretizza lo strapotere dei kolossal in costume statunitensi, nonché raggiunge uno dei suoi apici la letteratura di fantascienza. Il tutto nel segno dell’inquietudine, della quale Hopper è stato l’ostinato narratore.
Riferendoci sempre a quello che è possibile vedere in mostra, una presenza eccezionale è Soir Bleu (1914), probabilmente l’opera di maggiori dimensioni creata dall’artista. Questa suscitò scandalo nel gusto tipicamente borghese e prude della società WASP di New York. Una tela piena di provocazioni, nella quale vi è in Hopper un ultimo momento di mediazione tra la influenza francese e la ricerca di una sua specificità americana. Certo, è innegabile che l’influsso della pittura transalpina non sparirà mai definitivamente in lui, mutando dal formale al concettuale, nella imitazione della istantanea fotografica, agognando per quei “momenti di intimità rubati”, brevi attimi isolati di descrizione, che non possono che rimandare a Edgar Degas, come si vede chiaramente in: Donna che cammina (“Woman Walking”, 1906).
Una silente violenza, così Hopper viene raccontato da Wim Wenders, suo grandissimo ammiratore e che, come avremo occasione di vedere, prese spunto dai suoi quadri per i suoi film. “La sensazione che tutto possa improvvisamente essere sconvolto”, così il cineasta tedesco ha correttamente definito quello che si prova stando davanti ai quadri di questo pittore.
Verrebbe da chiedersi se non sia il caso di accantonare definitivamente l’Hopper manierista all’europea, quello de Il bistrot e la bottega del vino (“Le Bistro or The Wine Shop”, 1909), dove si palesa una mancanza di composizione: un tema francese che ha sullo sfondo un paesaggio dal sapore americano. A questo pittore troppo provinciale, andrebbe magari preferito quello che ha successivamente sviluppato uno specifico culturale, che lo ha reso giustamente famoso, con temi che lui come pochi altri ha saputo raccontare nel XX secolo. Allora, pensiamo a Interno d’estate (“Summer Interior”, 1909), con quella disperazione che è sempre declinata al femminile; oppure a Ombre sulla notte (“Night Shadows”, 1921), una acquaforte che racchiude una anima cinematografica, con una “inquadratura” dall’alto. Sul cinema e Hopper ci sarebbe molto da dire e ne parleremo a breve. Comunque sia, la Settima Arte lo pervade nel modo di osservare, e il suo cinema non è certo francese e la definizione del tratto sopraggiunge in lui, quando diventa finalmente un pittore americano.
È però nei paesaggi che si palesa la efficacia del suo studio sulla luce, con la rappresentazione dei fari quale culmine della sua vocazione fotografica. Quei luoghi di mare, dove era solita andare a svernare la gente bene delle grandi città della East Coast, con le case coloniche più o meno lussuose: Strade e case a Sud di Truro (“Road and Houses, South Truro”, 1930 – 1933). A tal proposito, è interessante notare che se in Hopper le persone sono quasi sempre ritratte prive degli occhi, lo stesso “accecamento” lo si ritrova nelle finestre delle abitazioni di provincia, le quali sono immancabilmente chiuse o persino assenti: Casa su Pamet River (“House on Pamet River”, 1934); le stesse finestre che sono però “aperte” e colorate negli anni ’10 – ’20. Ancora una volta, vi è una marcata dicotomia in lui tra città e campagna, visto che i suoi appartamenti e uffici nei grandi palazzi di New York sono mostrati quasi fossero quello “zoo di vetro” di williamsiana memoria. Ovvero, degli ambienti in cui la vita si è arrestata improvvisamente, così da permettere al nostro sguardo di spiarla dall’esterno. La città in Hopper è una specie di cimitero dei viventi, popolato, ma pur sempre saturo di disperazione. Egli fu capace di rendere manifesto l’animo americano degli anni ’30, incarnando quel male di vivere causato dalla Grande Depressione. In Studio per ufficio di notte (“Study for Office at Night”, 1940), non solo è possibile riscontrare la seduzione talvolta un po’ sfacciata di alcuni dei suoi soggetti femminili, con la donna che viene metodicamente ignorata dall’uomo, ma altresì il fatto che nell’artista non si è mai verificato un New Deal, quella ripresa della speranza che caratterizzò i film di Frank Capra (1897 – 1991). Ragion per cui, addirittura la sessualità per Hopper è un momento di stasi, oppure, come vediamo in Girlie Show (1941), un qualcosa che andava rappresentato con macabra ironia. Vi è una opera in esposizione che rivela perfettamente la sua negazione della vitalità: Secondo piano al Sole (“Second Story Sunlight”, 1960), ove le figure sembrano imbalsamate, proclamando quel simbolismo della morte che è una della suddette “cifre hopperiane”.
Parlando del modo in cui egli lavorava, possiamo dire che si trattava di una falsa pittura en plein air, considerato che era solito abbozzare i soggetti nei suoi taccuini, per poi dipingerli in studio. Già, la messa in scena, simile a quella del cinema, col quale egli instaurò un rapporto insostituibile; Hopper agli inizi della sua carriera si guadagnava da vivere disegnando delle locandine di film. Se dalla Settima Arte egli rubò l’inquadratura, è altrettanto giusto affermare che molto restituì in cambio; a partire proprio dalle pellicole di Wenders, tra tutte Paris, Texas (1984). La lista dei registi che si sono ispirati a un modo di raffigurare il mondo dichiaratamente di stampo hopperiano è lunga. Il David Lynch di Una storia vera (“The Straight Story”, 1999) è intriso di quelle atmosfere di una provincia desolata che ritroviamo nei quadri dell’artista statunitense. Tuttavia, in questa influenza reciproca tra Hopper è il cinema, è stato il grandissimo Alfred Hitchcock a esaltare più sapientemente le tematiche care al pittore. Come non ricordare, allora, che la casa di Psycho (1960) è identica a quella della tela: Casa lungo la ferrovia (“House by the Railroad”, 1925). Il maestro inglese seppe pure carpire il voyeurismo del pittore ne La finestra sul cortile (“Rear Window”, 1954), perfetta sintesi di quella America artificiosamente “tranquillizzata”, o ancora meglio “sedata”, di cui Hopper fu il tragico cantore. Difatti, se è corretto affermare che egli ispirò tanto cinema, lo fece perlopiù nel genere noir, poiché, e non bisogna avere timori di sorta nel sostenerlo, Hopper è da considerarsi un artista “negativo”, totalmente pessimista al di là della compostezza della sua composizione pittorica. Infine, quasi una nemesi verso la sufficienza con la quale Hopper trattò l’Italia e la sua arte, possiamo dire che è stato un nostro compatriota a rendergli visivamente l’omaggio meglio compiuto. Ci riferiamo al magnifico Profondo rosso (1975), quando Dario Argento iconizza per sempre il bar di Nighthawks, ripreso in una Torino notturna ed esoterica.
Concludiamo l’analisi sulla mostra e la pittura di Hopper, proponendo un “problema museologico” che lo riguarda. La quasi totalità delle sue opere è custodita nel Whitney Museum of American Art di New York. Un po’ poco per un artista considerato da molti come universale. Forse non è stato capito all’estero, perché troppo americano? Francamente, riteniamo che egli abbia beneficiato negli ultimi decenni di una critica decisamente amica, ben oltre i suoi, comunque indiscutibili, meriti. Abbiamo iniziato questo nostro scritto, affermando come Hopper vada considerato una sorta di anti-Rockwell. Entrambi perfetti nella forma, alla ricerca di una rappresentazione in parte fotografica. Due facce della stessa medaglia, quella America nel contempo vitale e depressa, potentemente urbana, quanto provinciale. La differenza tra i due? Il successo nella cultura pop che ha esaltato Hopper, con i suoi quadri che paradossalmente si prestano assai meglio a diventare dei poster, di quanto ne siano capaci le copertine di Rockwell. Se quest’ultimo è giusto considerarlo un illustratore più che un vero pittore, nel caso di Hopper la grandezza artistica non ci appare così evidente. Lampante è sicuramente la sua specificità, con il suo opus che si attesta come un imprescindibile documento su molte delle inconfessabili inquietudini della middle class bianca americana.